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ISSUE 406

I tempi delle Cop non coincidono più con quelli del clima

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I tempi delle Cop non coincidono più con quelli del clima

Siamo arrivati alla ventinovesima Conferenza delle parti in quel di Baku con il cruscotto del clima illuminato a festa da ogni possibile spia di emergenza. Nell’anno appena trascorso abbiamo sfondato il tetto delle quattrocentoventi parti per milione di CO2 in atmosfera, valore mai rilevato finora. Grazie a questo, per la prima volta abbiamo inanellato dodici mesi consecutivi vissuti pericolosamente sopra il limite dei +1,5 °C rispetto al periodo preindustriale e una gamma di catastrofi meteoclimatiche forse mai vista prima, da uragani a incendi, da alluvioni a siccità estreme.

 

Eppure, il piede continua a pigiare sull’acceleratore, puntando dritti verso il baratro del caso climatico. Altro record: cinquantasette miliardi di tonnellate di gas serra sparate in atmosfera, sempre nel 2023, mai così tante nella storia dell’umanità. Per questo l’Unep, il Programma ambientale delle Nazioni unite, proprio in vista della Conferenza aveva intitolato il tradizionale report annuale che monitora i progressi globali nel contrasto alla crisi climatica “No more hot air, please…”, la cui giusta traduzione sarebbe qualcosa del tipo “Basta con le chiacchiere!”.

 

E infatti la Cop29 doveva essere quella che ci avrebbe fatto finalmente passare dalle dichiarazioni, come l’ormai famoso «transitioning away from fossil fuels» concordato lo scorso anno alla Conferenza di Dubai, ai fatti. Tradotto: i soldi! Il principale obiettivo di questo evento, infatti, era quello di convincere le economie industrializzate, principali responsabili della crisi climatica in corso, a mettere i soldi per consentire ai Paesi in via di sviluppo e alle economie emergenti di fare leapfrog, ossia uscire dalla povertà senza nessuna transizione, ma saltando direttamente da un sistema economico ed energetico quasi preindustriale a uno pienamente decarbonizzato, o quasi.

 

E perché mai i Paesi più ricchi dovrebbero far questo? Non solo per una questione etica e di responsabilità storica, perché siamo dove siamo grazie al modello di sviluppo che ha consentito di produrre la ricchezza di cui oggi godono. Ma anche per un tornaconto molto personale.

 

Perché se l’economia dell’India, il Paese più popoloso del mondo, da qui al 2035 raggiungesse le dimensioni di quella cinese oggi, cosa possibile, e lo facesse alimentando questa enorme crescita con combustibili fossili, come abbiamo fatto noi potenze industriali, non avremmo più accordi da fare o salvare, ma solo un caos climatico per milioni di persone letteralmente letale. Ed ecco che tutta l’attenzione si concentra sul “New climate quantified goal on climate finance”, che altro non è che la cifra che nei prossimi anni i Paesi industrializzati accetteranno di mettere sul piatto.

 

Per questo l’agenzia delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) ha presentato i risultati di una ricerca con cui per la prima volta quantifica quale dovrebbe essere questa cifra. In media, da qui al 2029 si tratta di circa 1,3 trilioni di dollari all’anno, numero che diventa subito l’icona dell’evento. Questo è quello che servirebbe, e questa diventa la richiesta dei Paesi più poveri del mondo a quelli più ricchi. E qui si apre il conflitto tra i fautori di un “sano realismo” e quelli ancora attaccati a un principio di realtà. La realtà è quella di una crisi climatica che, numeri alla mano, avanza rapidamente e senza fare sconti.

 

Il sano realismo è quello di chi ritiene questa cifra, che nel 2025 sarebbe pari all’1,4 per cento del Pil dei Paesi più ricchi (con la progressione prevista nei cinque anni), semplicemente insostenibile. Ed è per rispondere a questi sfegatati fan del realismo che l’Unctad mette le mani avanti, e nel suo rapporto presenta una tabella che mette la mette a confronto, ad esempio, con le spese per gli armamenti di questi Paesi, pari ogni anno all’1,9 per cento del Pil, o con quelle sostenute per sussidiare proprio i combustibili fossili, pari al 3,6 per cento del Pil.

 

Ma anche questo ulteriore bagno di realtà a Baku non ha sortito gli effetti sperati. Il (sano?) realismo ha prevalso. I Paesi industrializzati hanno triplicato l’impegno annuo sulla finanza climatica preso a Copenaghen nel 2009 (e raggiunto solo nel 2022), riuscendo peraltro a portare a bordo sulla barca dei contributori per la prima volta anche la Cina (ma solo su base volontaria, e questo apre altri inquietanti interrogativi): trecento miliardi di dollari l’anno entro il 2035.

 

Che, va da sé, i realisti salutano come un grande successo. Ma che, nel mondo reale, sono semplicemente troppo pochi e “troppo tardi”: quando arriveranno, la crisi climatica avrà probabilmente fatto il suo corso. Noi intanto, però, continuiamo a organizzare le Cop sul clima in “petrostati” e a sussidiare i combustibili fossili versando ogni anno quasi dieci volte tanto quello che abbiamo promesso di dare ai Paesi in via di sviluppo per combattere la crisi climatica tra dieci anni. È una ulteriore conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che i tempi delle Cop non coincidono più con quelli del clima ma, come sempre, dobbiamo fare attenzione a non buttare via bambino e acqua sporca.

 

Andrea Barbabella

 

 

Photo:  wal_172619

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