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ISSUE 411

L’insostenibile paradosso di Hilda, il bovino che non inquina

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L’insostenibile paradosso di Hilda, il bovino che non inquina

Nel Regno Unito, tramite una selezione genetica tradizionale velocizzata dalla fecondazione in vitro, è nata una mucca che non emette metano. A che punto stiamo arrivando pur di non modificare le nostre abitudini alimentari?

 

All’inizio di quest’anno, nel Regno Unito, è nata Hilda, il primo bovino «progettato» per non emettere gas serra quando erutta o produce aria. I bovini, infatti, durante il processo di digestione producono metano, il secondo gas serra più impattante dopo l’anidride carbonica. 

 

I ruminanti generano questo gas come prodotto di scarto del processo di fermentazione ruminale delle fibre contenenti nel cibo di cui si nutrono. Si tratta di un processo naturale, che contribuisce alla produzione di metano, elemento perfettamente integrato nel ciclo del carbonio.

 

Con questa “invenzione”, insieme a tantissimi altri esperimenti in merito, si sta evidentemente cercando di evitare quanto più possibile che i bovini emettano metano. La novità è stata infatti descritta come un «momento estremamente significativo» per la decarbonizzazione dell’industria lattiero-casearia del Regno Unito. Lo scopo è quello di avere bovini «più ecologici», come se a non esserlo fossero gli animali. 

 

Hilda appartiene alla mandria di Langhill, bestiame spesso utilizzato a scopi di ricerca, insegnamento e formazione in ambito zootecnico presso l’Università di Edimburgo, in Scozia. Viene impiegata per studi avanzati sulla produzione di latte, la genetica bovina, il comportamento animale, la salute e il benessere degli animali. È particolarmente nota per essere una risorsa preziosa per la ricerca sull’efficienza produttiva e sull’impatto ambientale degli allevamenti. 

 

Hilda fa parte del progetto “Cool Cows”, che prevede la selezione genetica di bovini che producono quantità inferiori di metano. Infatti, esistono in natura bovini in cui i batteri metanogeni, responsabili della produzione del gas, sono meno attivi. Non si tratta quindi di ingegneria genetica, ma di selezione genetica tradizionale, velocizzata dall’uso di tecniche di fecondazione in vitro. I ricercatori identificano questi animali con una predisposizione naturale a produrre meno metano durante la digestione e ne favoriscono la riproduzione. 

 

Per dare vita a Hilda sono stati prelevati gli ovuli della madre, poi fecondati con sperma di tori selezionati; l’embrione è stato quindi prodotto in laboratorio e trasferito nella madre. Nel giro di appena otto mesi, si prevede l’arrivo di «mandrie green» con le stesse caratteristiche di Hilda. Questo, però, può accadere solo dopo aver garantito che la “sostenibilità” dell’animale non abbia un impatto su altri aspetti come la salute e la produttività del settore.

 

La notizia è stata presentata con una positività disarmante. «Dato che il consumo globale di prodotti lattiero-caseari continua a crescere, allevare bestiame in modo sostenibile è estremamente importante», ha affermato uno dei partner del progetto, Richard Dewhurst dello Scotland’s rural college (Sruc). In pratica, è come ammettere che, poiché non siamo in grado di ridurre il nostro consumo di latte con le alternative disponibili, dobbiamo ricorrere alla fecondazione in vitro (spesso dannosa per gli animali) per continuare a godere di questi prodotti. Si parla di «manzo d’élite, efficienti in termini di metano». 

 

Il metano prodotto dai bovini rappresenta circa il cinque per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale, e quello prodotto dagli allevamenti è ventotto volte più impattante dell’anidride carbonica nel riscaldamento atmosferico, se consideriamo un periodo di cento anni. Il metano è infatti molto più efficace della CO2 nell’intrappolare il calore, anche se rimane nell’atmosfera per un tempo inferiore. Gli allevamenti intensivi sono una fonte significativa di queste emissioni, sia per la digestione dei ruminanti, sia per il processo di decomposizione del letame. La quantità problematica di emissioni climalteranti, però, non è causata dall’animale in sé, ma dalla presenza di un gran numero di capi su uno spazio ristretto.

 

Ma consideriamo gli altri dati. Il quaranta per cento di metano viene emesso nell’atmosfera da fonti naturali, mentre circa il sessanta per cento deriva da fonti antropiche. Considerando queste ultime, circa il quaranta per cento proviene dal settore agricolo, il trentacinque dall’energia e il venti per cento dai rifiuti organici. 

 

Secondo il Global meater tracker 2024 dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), le emissioni di metano dall’industria dei combustibili fossili hanno raggiunto quasi centoventi milioni di tonnellate nel 2023. Si tratta di un livello rimasto praticamente invariato rispetto al record stabilito nel 2019. Per rispettare gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi, che mira a contenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre.industriali e, idealmente, limitarlo a 1,5°C, è indispensabile una drastica riduzione delle emissioni entro il 2030. E non sarà Hilda a risolvere questo problema di natura globale. 

 

Hilda rappresenta il paradosso del nostro secolo: piuttosto che cambiare le nostre abitudini per ridurre l’inquinamento o attuare piani strategici mirati nei settori più impattanti sul clima e l’ambiente, preferiamo intervenire su ciò che è presente e integrato in natura. 

 

L’invenzione in laboratorio è stata descritta dagli accademici come poco invasiva, proprio perché si è trattato di una selezione genetica e gli animali non sono stati modificati geneticamente. Tuttavia, prelevare lo sperma tramite eiaculazioni indotte, spesso mediante scosse elettriche (elettroeiaculazione), e creare feti che non sempre sopravvivono fino a ottenere i risultati desiderati non può essere considerata una pratica priva di stress per gli animali. Tutto questo è stato presentato come il processo necessario per creare «allevamenti etici». Ma, come sottolineato dalla Lega anti vivisezione (Lav), di etico c’è ben poco.

 

Simona Losito

 

 

Photo: vecstock

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