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Tra 'effetto Chernobyl' e fonti rinnovabili competitive, il nucleare è ormai in declino?


Tra 'effetto Chernobyl' e fonti rinnovabili competitive, il nucleare è ormai in declino?

Le vecchie centrali sono prossime alla dismissione, i costi sono diventati fuori mercato e le rinnovabili sono in continua ascesa: il nucleare civile sembra incamminarsi sul viale del tramonto.

Costi alle stelle. La concorrenza delle rinnovabili. L’irrisolto problema delle scorie. E lo spettro di altri incidenti catastrofici. Sono gli ingredienti del declino che ha investito l’industria dell’atomo. Per la prima volta, persino l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) è costretta ad ammettere che il futuro del nucleare civile è incerto. Il rapporto Nuclear Power in a Clean Energy System afferma che la capacità di produzione di energia nucleare nelle nazioni a economia avanzata potrebbe subire un tracollo del 25% entro il 2025 e addirittura di due terzi entro il 2040.

Le ragioni del declino

A dirla tutta, sono anni che il settore è in stallo. Secondo la banca dati dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) nel mondo sono attivi 449 reattori a fissione, che forniscono circa il 10% dell’elettricità e il 5% dell’energia primaria prodotta a livello globale. Ma il loro numero è rimasto pressoché invariato dal 2011, l’anno dell’incidente di Fukushima, quando erano 448, cioè uno in meno.

Oggi la costruzione di nuovi reattori è concentrata in Asia e coinvolge un pugno di nazioni: Cina, India, Russia e Corea del Sud, che non nascondono l’ambizione di esportare la loro tecnologia anche all’estero, come sta già facendo la Russia in Turchia e la Corea del Sud negli Emirati Arabi. Il contributo di questi nuovi impianti sarà però vanificato dalla dismissione delle vecchie centrali europee, statunitensi e giapponesi, ormai prossime al pensionamento. Cosicché oggi ben pochi sono disposti a scommettere su una rinascita del nucleare.

Crack atomico

Più che il timore di incidenti o l’ostilità dell’opinione pubblica, tuttavia, a gravare sull’industria dell’atomo è la fuga degli investitori. I bassi prezzi dell’elettricità nelle economie avanzate e la concorrenza delle rinnovabili hanno infatti spinto il nucleare fuori mercato. Ecco perché secondo il World Nuclear Industry Status Report, a livello globale, tra il 2017 e la prima metà del 2018, la nuova potenza installata del nucleare è stata di appena 7 gigawatt contro i 157 gigawatt delle rinnovabili.

L’opzione nucleare resta praticabile soltanto laddove è il governo ad accollarsi i rischi finanziari, la manodopera è a buon mercato e le autorità di controllo sono meno rigide rispetto a quelle europee nel chiedere modifiche progettuali che finiscono per dilatare tempi di costruzione e costi degli impianti.

In questo scenario, la Iea non ha altre ricette da proporre se non estendere la vita operativa delle centrali occidentali. Del resto, dopo l’incidente di Chernobyl, nel 1986, in Europa e negli Stati Uniti nessuno ha più costruito impianti nucleari per oltre vent’anni, mentre i progetti più recenti si sono rivelati fallimentari.

Nell’agosto del 2005 la Finlandia è stata il primo Paese europeo a riaprire i cantieri, ma l’inaugurazione della centrale di Olkiluoto, prevista per il 2009, è slittata più volte e non è ancora stata celebrata. Nel frattempo i costi sono triplicati, passando da 3 a 9 miliardi di euro. Stessa sorte per il nuovo reattore della centrale francese di Flamanville: i lavori sono in corso da 12 anni e il conto è già lievitato alla stratosferica cifra di quasi 11 miliardi di euro. Nel frattempo, negli Stati Uniti persino lo storico colosso del nucleare Westinghouse ha dichiarato bancarotta.

L’impatto ambientale

Senza un contributo significativo del nucleare, la transizione energetica sarà molto più complicata”, avverte però Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Iea, che stima in 4 miliardi di tonnellate di CO2 le emissioni aggiuntive causate dalla dismissione degli impianti esistenti.

In assenza di altri argomenti, oggi anche l’industria nucleare punta sulla lotta ai cambiamenti climatici per promuovere le centrali, che hanno emissioni di CO2 trascurabili rispetto agli impianti a combustibili fossili. Tuttavia, se da un lato l’improvviso impegno ecologista dell’industria dell’atomo appare assai poco credibile, dall’altro anche sul fronte della riduzione dei gas serra il nucleare deve fare i conti con le rinnovabili, già oggi più competitive grazie al calo dei costi di produzione, avvenuto assai più in fretta di quanto la stessa Iea non avesse previsto.

Se inoltre si considera l’intero ciclo produttivo – dall’estrazione dell’uranio alla produzione del combustibile, dalla costruzione delle centrali fino all’irrisolto problema dello smaltimento delle scorie radioattive – l’impatto ambientale del nucleare resta molto elevato anche senza mettere nel conto il rischio di incidenti.

Immaginario pubblico

A complicare ulteriormente il quadro potrebbe inoltre contribuire il successo planetario della serie tv Chernobyl prodotta da Hbo (trasmessa in Italia da Sky Atlantic). Nonostante l’intento dei creatori non fosse quello di drammatizzare i rischi del nucleare, il risultato probabilmente non gioverà all’immagine pubblica dell’energia atomica.




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