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Con il greenwashing è facile lavarsene le mani - di Lorenzo Maestripieri


Con il greenwashing è facile lavarsene le mani - di Lorenzo Maestripieri

Vi è di sicuro capitato: vi trovate di fronte alla pubblicità di un’azienda che declama azioni per la salvaguardia dell’ambiente, e alla fine rimanete sconcertati; qualcosa non torna, ma non sapete bene cosa. Probabilmente, il fatto è che inconsciamente avete capito che tutte quelle parole sono solo di facciata, e l’azienda non si preoccupa davvero del clima e dell’ambiente. Avete appena assistito a un tentativo di greenwashing.
Il termine greenwashing (che viene dall’inglese brainwashing – lavaggio del cervello) significa letteralmente “lavaggio verde”, e indica un’operazione di marketing atta a migliorare la reputazione di un’azienda o di un’organizzazione. Come? Facendosi passare per paladini dell’ambiente e del clima, senza che però questo si associ davvero a politiche aziendali significative e coerenti. Praticamente, è l’equivalente di un amico che all’ultimo momento mette le candeline sulla torta e si prende il merito di averla preparata lui, mentre in realtà è rimasto tutto il tempo a rubare gli ingredienti dalla cucina per mangiarseli da solo.

 

È importante parlare di greenwashing perché, da quando è nato Duegradi, di clima si parla molto di più, ma non sempre in maniera trasparente: ora che l’emergenza climatica è stata riconosciuta (anche dal Parlamento italiano!), sono molte le organizzazioni che cercano di cavalcare l’onda di questa spinta verso la sostenibilità e la transizione ecologica. Alcune di esse, tuttavia, predicano meglio di quanto non operino nella realtà. Ciò significa che pubblicizzano grandiosamente programmi ambientali di entità minima mentre non si preoccupano di lavorare sulla sostenibilità strutturale dei propri processi di produzione, e di investire ambiziosamente su un futuro ecologicamente compatibile.

 

Il rischio, allora, è che in quanto consumatori e cittadini non riconosciamo le realtà che si nascondono dietro simili operazioni di marketing, e guardiamo con ammirazione a quelle stesse organizzazioni che, in verità, sono responsabili di una grossa fetta di emissioni e di degrado ambientale.

 

 

 

Come ci fanno il greenwashing

 

Esistono diversi modi in cui le imprese provano a ripulirsi l’immagine giocando la carta del clima. I metodi più comuni per farlo sono tre: fare affermazioni vaghe o irrilevanti, utilizzare informazioni fuorvianti e condividere solo informazioni e dati convenienti.

 

Quando il sito di un’azienda riporta che “il marchio X è impegnato in una costante battaglia per la riduzione delle emissioni, perché consapevole della necessità di fare del bene per il clima ecc ecc…” probabilmente non sta facendo altro che evitare di parlare del fatto che lo stesso marchio X non fa nulla di pratico per il clima. Le organizzazioni che effettivamente si impegnano per ridurre le proprie emissioni presentano dati e informazioni precise, e sono spesso certificate da enti indipendenti e riconosciuti. D’altra parte, quelle che non hanno nulla da dire fanno discorsi privi di contenuto.
Per quanto riguarda le informazioni irrilevanti, invece, parliamo di tutte quelle volte in cui un’impresa afferma di fare qualcosa di buono per l’ambiente o per il clima senza però effettuare nessun vero sforzo oltre quelli richiesti dalla legge. Il fatto che un deodorante spray pubblicizzi la mancanza di clorofluorocarburi, per esempio, è un buon esempio di come un obbligo legale venga trasformato in una trovata di marketing senza che  l’organizzazione abbia fatto nulla più dello stretto necessario. I requisiti legali in tema ambientale e climatico non sono certo un merito, e non devono venire strumentalizzati per sembrarlo.

 

La diffusione di informazioni fuorvianti costituisce la gran parte dei tentativi di greenwashing. Quando la Ferrarelle afferma che il PET è riciclabile all’infinito dà un’informazione corretta ma fuorviante, perché sembra sottintendere che una singola bottiglia sia riciclabile infinite volte. In verità, questo non è possibile, perché anche se il PET, come composto chimico, è riutilizzabile all’infinito, nella realtà una bottiglia di plastica si degrada durante i processi di produzione, distribuzione e utilizzo. Chi ascolta la pubblicità, tuttavia, penserà che comprare una bottiglia d’acqua di plastica non sia un problema dal punto di vista ambientale, dal momento che “se riciclassimo la plastica già esistente, non sarebbe necessario produrne di nuova”. Comunicare in questa maniera allude allora a una condotta pro-ambientale che, però, non corrisponde alla realtà dei fatti. E  non apriamo neanche il discorso sulle emissioni della produzione di bottiglie o sul fatto che siamo il primo Paese per consumo di acqua in bottiglia pro capite in tutta Europa.

 

Infine, c’è chi fa greenwashing pescando, qui e lì, le informazioni su di sé che più convengono a dare un’idea positiva dell’impresa ed evitando di menzionare tutte le attività dannose e gli impatti negativi su ambiente e clima. Insomma, se è vero che “quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”, è anche vero che c’è qualche azienda che vorrebbe convincerci a guardare solo il dito e ignorare completamente la luna.
Prendiamo un esempio pungente e a noi vicino: Eni. La multinazionale dell’energia pubblicizza  oramai da mesi le proprie iniziative sostenibili, sottolineando inoltre la necessità dei gesti individuali nella lotta per il clima. Ferma restando la correttezza delle affermazioni, bisogna guardare in faccia la realtà: gli investimenti di ENI nelle iniziative che minimizzano le emissioni di gas serra sono minimi rispetto al budget dell’organizzazione, che, almeno fino al 2022, rimarrà per oltre il 94% concentrato sul settore dei combustibili fossili. Una buona fetta di questo budget è poi dedicata ad attività esplorative, che mirano addirittura a un ulteriore aumento della capacità produttiva; il tutto mentre gli Stati discutono (con poco successo, invero) di quanto sia necessario ridurre le emissioni e abbandonare il fossile per salvare il salvabile sul nostro pianeta.
Dire allora che quello che fa Eni “non basta” e serve l’azione individuale è abbastanza ipocrita per una realtà che controlla un’importante quota del mercato energetico e non sembra essere intenzionata a rinunciare alla propria preminenza tutta (o quasi) fossile. Quello che Eni cerca di compiere è una pulizia sistematica della propria immagine, compiuta attraverso un apparente spostamento della propria produzione verso fonti alternative di energia. Spostamento che, se esiste, rimane lentissimo e rappresenta percentuali minime rispetto alla produzione totale.

 

Qui sopra le più grandi aziende mondiali che influenzano le politiche sul clima. Quando vediamo quelle in alto a sinistra pubblicizzare grandi iniziative ambientali, forse è meglio domandarci se non stiano facendo greenwashing. Fonte: elaborazione di un grafico di InfluenceMap (Influencemap.org)

 

 

Che fare?

 

Insomma, il greenwashing costituisce una pratica comune e molto spesso subdola, rispetto alla quale è necessario mantenere alta l’attenzione, tanto come consumatori che come cittadini.

 

A questo tentativo di manipolazione comunicativa da parte di aziende e organizzazioni, è necessario opporsi. Infatti, la transizione verso un futuro climaticamente ed ecologicamente sostenibile è rallentata proprio da simili meccanismi volti a giustificare sistemi di produzione e abitudini di consumo che non si possono certo considerare dei casi virtuosi. Per questo, dobbiamo sempre prendere “con le pinze” le pubblicità roboanti con cui le aziende affermano di fare il bene del clima, e rimanere critici per poter capire se quello che ci viene comunicato è qualcosa di davvero positivo o si sta cercando di lavarsi le mani del futuro del nostro pianeta.

 

Lorenzo Maestripieri

 

fonte: duegradi




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