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ISSUE 318

Digitale e ambiente: strada (obbligata) o addio crescita

corriere.it

Digitale e ambiente: strada (obbligata) o addio crescita

La ripresa si è lentamente avviata. Lo hanno percepito da qualche settimana certamente i settori che sono stati graziati dalla pandemia, ma a breve anche turismo, abbigliamento, trasporto, ristorazione e tutti quelli cui il lockdown ha inflitto lo stop più grave pian piano ripartiranno. Del resto, questa crisi è diversa da tutte le crisi finanziarie che abbiamo vissuto nel recente passato. La crisi da cui stiamo uscendo è una rara crisi di domanda e offerta, più tipica delle guerre: è una crisi prodotta dal blocco forzato indotto dal lockdown, che in varie parti del mondo ci ha costretto per diversi mesi a casa e che non ci ha permesso di produrre e consumare come avremmo fatto abitualmente.

 

Impostare il percorso

 

Ma se, grazie alla vaccinazione di massa e agli ingenti investimenti previsti da Next Generation Eu e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), la ripartenza si avvia, non possiamo accontentarci. Perché per avere una vera ripresa dobbiamo battere sul tempo concorrenti di altre nazioni in un mondo che la pandemia ha dimostrato di essere sempre più interconnesso e sempre più competitivo, e dove perdere terreno è questione di un attimo. Per accelerare la ripresa, occorre impostare progetti non di sopravvivenza, ma di crescita. E una vera ripartenza basata sulla crescita non può che essere figlia dell’investimento in innovazione. Non esistono altre ricette.

 

Indipendentemente dal settore di appartenenza e dalla dimensione, due sono in particolare le aree su cui puntare con la massima urgenza, aree su cui peraltro il Pnrr è prodigo di riforme e investimenti: digitale e ambiente. Anzitutto la trasformazione digitale, che il tessuto industriale italiano ha iniziato a conoscere con gli incentivi di Industria 4.0, deve essere portata a compimento.

 

Il farlo non è banale, perché parlando con molti imprenditori e manager si ha spesso la sensazione che l’investimento in digitale continui a essere concepito come un semplice investimento in quella che una volta chiamavamo «informatica»: acquisti di mainframe e telefoni di ultima generazione o, come si ama dire oggi, «investimenti nel cloud». Si trasferiscono risorse alla funzione di Information Technology, che continua però ad agire senza un vero coordinamento strategico a supporto di funzioni e divisioni aziendali, che operano in modo conservativo e senza un comune progetto innovativo. Dalla micromeccanica al design e arredamento, cioè, si ha la sensazione che le aziende che tengono in piedi l’export italiano (momentaneamente ancora ottavo a livello mondiale e con una seconda posizione in Europa in costante competizione con la Francia) si adagino sulla qualità intrinseca del «made-in». E impieghino il digitale più come forma di abbellimento del loro operato, magari, nel caso dei settori di consumo, con i post di qualche influencer ingaggiato per fare rumore sui social network. Tutto ciò purtroppo non basta: del resto non si impiegherebbe la parola «rivoluzione industriale» quando si parla di tecnologia digitale. Occorre invece ripensare interamente l’azienda intorno ai dati che il digitale consente di ottenere e gestire, esattamente come è accaduto in questi vent’anni da quando la seconda generazione della tecnologia digitale, quella della rete, è apparsa. Siamo entrati nell’era dell’economia data-driven e dobbiamo esserne consapevoli per diventarne protagonisti.

 

Ciò vale per la grande multinazionale, ma vale soprattutto per la piccola e media impresa italiana. Occorre imitare chi nel mondo del commercio, dell’informazione e dell’entertainment, ha imparato a proprie spese cosa è necessario fare. La trasformazione digitale richiede una rivoluzione organizzativa, rivoluzione che nella gran parte delle aziende deve ancora essere impostata. Una rivoluzione che porta a rivedere i processi aziendali, storicamente intesi come moduli di proprietà di singole funzioni (la produzione, il commerciale, la ricerca), e che oggi devono scorrere fluidi come l’acqua nei fiumi i cui letti sono stati ripuliti: dalle operations al cliente.
La forza straordinaria ed epocale della tecnologia digitale è di farci avere real time i dati dei nostri clienti, dei nostri fornitori e di tutte le operazioni aziendali. Così facendo ci consente di comprendere ancora meglio non solo cosa vuole il cliente e quando lo vuole, ma permette di creare intorno a ciascuna azienda un ecosistema industriale di dati. Occorre, tutti, diventare delle piccole Amazon, l’azienda che ha riorganizzato completamente il suo business in processi snelli e guidati dal cliente. Così facendo si identificano inaspettate aree di valore che devono essere subito ricondotte ai processi produttivi e alle funzioni dedicate all’innovazione.

 

Il fronte «green»

 

Ma il digitale da solo non basta. Non possiamo avere un futuro di crescita se questo non sarà, nei fatti e non solo per moda, sostenibile. Per questo la seconda grande area di investimento per una ripresa accelerata riguarda proprio ambiente e sostenibilità e i chiari incentivi economici, contemplati nel Pnrr e dalla direzione imposta dagli investitori dei grandi fondi, sono un segnale forte oltre che un’opportunità da non perdere. La riduzione dell’emissione di carbonio nei processi produttivi dei nostri prodotti e servizi non può più essere procrastinata: l’obiettivo è indicato, entro il 2030 il 55-60% delle emissioni vanno abbattute ed entro il 2050 l’85-90%.

 

Ma l’innovazione si deve spingere ben oltre: l’identificazione di aree di sostenibilità nei materiali e nell’impiego di energie rinnovabili diventa cruciale per stimolare i consumi. Esattamente come sta avvenendo nel settore automobilistico e come stanno facendo molte aziende di moda, l’attivazione di materiali sostenibili oltre a essere una necessità diventa un elemento richiesto da una domanda in cui Millennial e nativi digitali, desiderosi di far propria la missione di un ambiente più sano, diventano la quota di mercato dominante. Purtroppo anche qui la sensazione è invece che più spesso l’attenzione a questa area sia demandata a funzioni di servizio che si occupano della Corporate Social Responsibility, gestiscono prevalentemente la comunicazione e non riescono a entrare operativamente nella trasformazione dei processi di innovazione necessari per cambiare lo status quo. È giunto invece il momento, a parte i nobili «bilanci di sostenibilità» e le dichiarazioni sul da farsi, che vengano prodotte con le azioni le innovazioni che stimolano i consumi.

 

Innovare in digitale e in sostenibilità non è ovviamente esente da rischi. Ma, parafrasando Mario Draghi, significa sostenere un rischio «ragionato». Non farlo significa invece avere la certezza di una quota di mercato erosa progressivamente da concorrenti di altre parti del mondo che si stanno muovendo velocemente lungo queste dimensioni. Ed essere nel tempo schiacciati dal fardello di un debito superiore al 160 per cento del Pil (che ci rende il paese del G20 più indebitato a parte il Giappone, e il secondo in Europa dopo la Grecia). Non è banale, dicevamo, ma il momento di ripartenza è la migliore delle condizioni possibili per farlo.

 

Gianmario Verona
Rettore Università Bocconi

 

 

Photo: aus_franken

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