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Rassegna del 14 Giugno 2018
    

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La plastica impatto zero? Esiste e viene dal sud


La produce Ferrarelle in Campania, protagonista di una rivoluzione che risparmierà all’ambiente 20 mila tonnellate di nuova plastica ogni anno. Succede grazie al bottle-to-bottle, che trasforma 3 mila chilogrammi all’ora. Con scarto uguale a zero

Per salvare il mare dalle microplastiche, disfatevi dei luoghi comuni. Poi, abituatevi alle felpe di pile, acquistate cotone di buona qualità e chiamate qualcuno a pulire gli scarichi della lavatrice. Soprattutto, non incolpate la bottiglietta d’acqua comprata in spiaggia: se i residui sintetici dell’abbigliamento sono responsabili di almeno il 40% della contaminazione della catena alimentare, i rifiuti abbandonati c’entrano piuttosto con la nostra inciviltà. Ma è una storia vecchia: quella nuova è che il polietilentereftalato, nome scientifico del polimero di plastica comunemente chiamato Pet, sta per diventare il materiale più ecosostenibile in circolazione, nonché quello più desiderabile. Obiettivo 20 mila tonnellate all’anno solo in Italia: meglio detto, solo in Campania, dove la battaglia contro i luoghi comuni è pronta a inaugurare un pezzo pregiato, l’unico stabilimento nostrano in grado di convertire una bottiglia di plastica usata in un’altra identica, con impatto ambientale pressoché nullo.

«Si chiama tecnicamente processo bottle-to-bottle, e anche se può sembrare scontato non lo è affatto: al momento le bottiglie interamente riciclate non esistono», spiega Michele Pontecorvo, 34 anni, erede di una dinastia industriale oggi proprietaria di Ferrarelle e di tutti i suoi marchi di acqua minerale, con 900 milioni di litri immessi sul mercato ogni anno. Cioè circa l’8% dei 7 miliardi di bottiglie vendute in Italia, di cui soltanto un sesto − secondo dati di Legambiente − è stato finora riciclato. «Per arrivare al bottle-to-bottle è servita una direttiva dell’Unione europea del 2008, la rottura di un monopolio e una visione di lungo periodo, su cui ci giochiamo il futuro», dice Pontecorvo con la chiarezza di chi poteva fare il rampollo bene ma ha scelto di lavorare, occupandosi di sostenibilità.
Il monopolio è quello di Corepla (Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica), fino a poco tempo fa unico ente intitolato ad accaparrarsi dai Comuni il bendidio che finisce nella spazzatura differenziata, di proprietà dello Stato e poi messo all’asta. Ferrarelle, con altri imbottigliatori (Lete, Norda, Nestlé) e distributori, dopo una trafila burocratica con autorizzazioni ministeriali e dibattiti parlamentari, ha invece creato il Coripet, consorzio specializzato nel recupero del Pet alimentare, la versione del Pet “certificata” e idonea per gli alimenti. Con l’intenzione dichiarata di liberalizzare la raccolta e lavorare con i cittadini e la grande distribuzione per la massimizzazione del riuso, oggi non abbastanza incentivato.
«Inutile girarci intorno», aggiunge Alessandro Frondella, direttore della produzione Ferrarelle, «alla plastica è comunque impossibile rinunciare: questa è dunque una rivoluzione culturale ma anche un importante elemento di business, considerando che il Pet vergine si vende tra gli 800 e 1.200 euro a tonnellata, e per noi è la prima voce di costo».
È così che si finisce a Presenzano, campagna casertana, dove lo stereotipo (e, sovente, anche la cronaca) vorrebbe far fiorire malaffare, disoccupazione e gestione disinvolta dei rifiuti. Lontano dallo stereotipo anche Campo Iannello, sede dello stabilimento bottle-to-bottle per cui Ferrarelle − 400 dipendenti, 150 milioni circa di fatturato e quarto produttore italiano − ha investito 40 milioni di euro, con il supporto al 50% di Invitalia, l’agenzia per lo sviluppo d’impresa del ministero dell’Economia, dando lavoro a 40 persone.
Qui montagne ordinate di bottiglie in Pet, suddivise per colori, aspettano di entrare nel circuito che in un’ora le trasformerà in capsule grosse quanto provette sanitarie che potranno poi essere soffiate per diventare bottiglie riciclate. Il tutto grazie a un circuito automatizzato, con macchinari certificati dall’Unione europea, che prevede controlli in ogni fase, incluse le analisi di cessione, ovvero i test che misurano se il Pet “rilascia” microplastiche di qualsiasi tipo: «Il risultato, costante, è sempre zero», assicura Frondella.
Il sistema − già in funzione ma pienamente operativo sul mercato dal 2019 − prevede quattro fasi: le bottiglie sono selezionate e separate dai tappi, che non sono fatti di Pet; vengono lavate, togliendo residui di etichette e qualsiasi altro materiale, e sminuzzate: il risultato sono 3 mila chilogrammi all’ora di scaglie riciclate di 12 millimetri di dimensione. Le scaglie vengono quindi asciugate e verificate agli infrarossi, per controllare ogni dettaglio. Infine, vengono compresse in capsule e analizzate in laboratorio per controllare una serie di parametri che vanno dalla correttezza della distribuzione del Pet alla sua viscosità. «Lo scarto inutilizzabile è zero», dice Pontecorvo: «Le scaglie che non dovessero andare bene a noi saranno rivendute a terzi per usi diversi, dai contenitori alimentari all’abbigliamento in pile».
La speranza è risparmiare all’ambiente la creazione di 20 mila tonnellate di nuova plastica ogni anno. Oltre a lavorazioni invasive, spiega ancora Pontecorvo: «Riciclare il Pet è molto più ecologico che riciclare il vetro: quella del vetro è un’industria pesante, con altoforni e un impiego massiccio di componenti chimici. Qui l’impatto ambientale è zero».
Il risultato finale è però anche un’altra idea di economia: l’azienda spera di abbattere il 10% dei costi sul ciclo produttivo. E, magari, trovare nuove fonti di ricavo, vendendo a terzi Pet riciclato, in un circolo virtuoso per tutti. «La nostra famiglia», conclude Pontecorvo, «ha una cultura di impresa particolare: il nonno di mia madre era un operaio socialista. Siamo quindi molto sensibili al tema dell’impatto sociale di quello che facciamo, e dell’indotto che genera. D’altronde, non ci è mancato mai di che vivere bene, quindi l’impresa deve generare profitto per se stessa e per consentire a chi ci lavora di vivere con serenità e con piacere». Un concetto che, di questi tempi, rischia di essere rivoluzionario almeno quanto l’ecosostenibilità del Pet.

 

Fonte: GQ ITALIA, 11 giugno 2018




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Rassegna del 14 Giugno 2018
 
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