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Rassegna del 3 Aprile, 2020
    

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Crescita e tecnologia possono far rima con sostenibilità. Parla Magnani (Luiss) - di Francesco Gnagni


Crescita e tecnologia possono far rima con sostenibilità. Parla Magnani (Luiss) - di Francesco Gnagni

"Storicamente le innovazioni hanno sempre consentito di aumentare sia la crescita economica che il lavoro, e ci si chiede se sarà così anche stavolta". Conversazione di Formiche.net con Marco Magnani, economista, docente di Monetary and Financial Economics alla Luiss e autore per Utet del libro “Fatti non foste a viver come robot”

Spesso si pensa che la rivoluzione tecnologica distrugga posti di lavoro, in realtà però molte aziende muoiono proprio per mancanza di innovazione tecnologica. Ma sono tante le contraddizioni e le incomprensioni che accompagnano il tema del cambiamento epocale che le nuove tecnologie pongono al mondo dell’industria e del lavoro. A partire da quelli etici. Come impostare e gestire il rapporto uomo-macchina? Quali saranno gli impatti che ne deriveranno nei prossimi anni, in termini occupazionali, di crescita economica e di sostenibilità, e come farsi trovare pronti? E quale sarà, o dovrà essere, il ruolo del capitale umano, e quindi della centralità della persona?

Formiche.net ne ha parlato con Marco Magnani, economista, docente di Monetary and Financial Economics in Luiss, fellow dell’Istituto Affari Internazionali e dal 2011 Senior Research fellow alla Harvard Kennedy School of Government, e autore per Utet del libro “Fatti non foste a viver come robot” (2020, pp.282).

Professore, le aziende muoiono di troppa tecnologia, o per carenza di innovazione?

L’idea di frenare la rivoluzione tecnologica per preservare il lavoro è irrealizzabile, e lo è sempre stato nella storia. L’innovazione è l’unico modo per le aziende di continuare ad essere competitive e creare ricchezza. Ma questa deve essere utilizzata o per consentire alle persone di usare nuove tecnologie, quindi per lavorare meglio, oppure nel caso si perdano posti di lavoro, per una ridistribuzione della ricchezza. La crescita e la tecnologia non sono nemiche della sostenibilità, anzi possono aiutare, dal punto di vista sociale, a migliorare la qualità del lavoro e di vita.

È fondato secondo lei, il timore di una crescita senza lavoro e insostenibile?

Il rischio c’è perché molte di queste nuove tecnologie, soprattutto l’intelligenza artificiale, insidiano non solo i lavori pesanti, pericolosi o ripetitive, ma anche le mansioni intellettuali. Però il vero impatto è dovuto al fatto che molte mansioni non vengono sostituite, ma semplicemente cambiano.

Quali sono i vincoli di sostenibilità a cui siamo maggiormente sottoposti?

Sono ottimista sul fatto che i vincoli di sostenibilità, di tipo energetico, alimentare, demografico, e lo stesso per quello ambientale, possano essere gestiti e superati grazie all’innovazione tecnologica. La tecnologia può essere uno strumento per consentire di crescere nel rispetto di certi vincoli di sostenibilità. In campo energetico, ad esempio, l’innovazione consente di trovare nuove risorse senza fine. Dal punto di vista alimentare, la produzione nel mondo è aumentata in maniera pazzesca negli ultimi anni, la fame continua ad esserci per un problema di distribuzione.

Nel suo libro, “Fatti non foste a viver come robot”, lei parla di una figura nuova e antichissima insieme ovvero “l’uomo-pastore”, ma stavolta dei robot.

Storicamente le innovazioni hanno sempre consentito di aumentare sia la crescita economica che il lavoro, e ci si chiede se sarà così anche stavolta. Ci sono elementi che fanno pensare che potrebbe andare diversamente. Ma possiamo vincere questa sfida a due condizioni. La prima riguarda la sostenibilità: è necessario che l’uomo ricordi di essere stato messo nel giardino dell’Eden per coltivarlo e custodirlo. Fuor di citazione, ciò significa che possiamo continuare a crescere solo rispettando i vincoli di sostenibilità ambientale. Il secondo punto è che possiamo continuare ad aumentare l’innovazione solo a patto di riscoprire il ruolo centrale dell’uomo, la sua preminenza rispetto alle macchine. C’è una cosa che abbiamo fatto bene per millenni: i pastori, di greggi e di mandrie. I robot non sono altro che dei gruppi di pecore dotate di un certo tipo di intelligenza, che noi dobbiamo gestire con un rapporto di preminenza.

Oltreoceano, da qualche anno c’è chi sostiene che sia addirittura auspicabile che la macchina sostituisca l’uomo, i cosiddetti transumanisti. Penso a quanto viene raccontato nel libro-inchiesta “Essere una macchina” di Mark O’Connell.

Il punto di singolarità, di cui talvolta si parla, è il momento in cui le macchine superano l’uomo e lo dominano, e c’è chi pensa che siamo molto vicini. Io ritengo che il rischio non è tanto che la macchina prevalga sull’uomo ma che l’uomo arretri e ceda troppo spazio alle macchine, delegandogli troppe funzioni celebrali. Questo è un fenomeno che in parte già succede. Nel libro di Vittorino Andreoli “Il cervello in tasca” si spiega che ognuno di noi delega già tutta una serie di funzioni mnemoniche o di ragionamento alle macchine. In quest’ottica, io non sono favorevole alle tesi che sostengono, dal punto di vista economico, la necessità di lasciar fare tutto alle macchine, mentre noi ci dedichiamo a un mondo in cui non dobbiamo più lavorare. Perché quello vuol dire arretrare e lasciare alle macchine uno spazio in cui loro hanno preminenza. Perché il lavoro non è solo una questione di salario, ma anche, ad esempio, di identità e integrazione sociale.

Quanto è importante perciò, in questo crocevia storico, la formazione del capitale umano?

Sarà sempre più necessario che la formazione sul lavoro sia continua, perché cambia continuamente il modo in cui si lavora. Ci sarà il trauma dei lavori che scompaiono, ma c’è anche la speranza dei nuovi mestieri. In mezzo ci sono un sacco di lavori che continueranno a esistere, ma per fare i quali serviranno un sacco di competenze diverse. Una grande innovazione tecnologica, in passato, faceva scaturire una grande rivoluzione industriale che nel giro di una generazione ristabiliva equilibri, che poi restavano gli stessi per più generazioni. Oggi, nel corso di una generazione, un singolo cambia più volte il modo di fare lo stesso lavoro.

In questi giorni, per cause di forza maggiore, assistiamo al dilagare dello smart working. Pensa che si tratti di un modello che, al termine di questi mesi, potrà sedimentarsi nella cultura del lavoro italiana?

L’innovazione consente anche di lavorare a distanza, e questo può in certi casi aumentare la produttività. Oggi c’è la convergenza dell’innovazione tecnologica e la globalizzazione, e per la prima volta nella storia una parte dei nuovi mestieri sono altamente mobili. Una volta le innovazioni tecnologiche facevano muovere le persone, ad esempio dalla campagna alla città. Oggi non sappiamo quali saranno i nuovi mestieri, visto che due terzi di quelli che faranno i bambini che oggi frequentano le elementari oggi ancora non esistono. E non sappiamo nemmeno dove saranno. Ma sappiamo che potranno essere svolti da altri luoghi. Già oggi le aziende hanno piattaforme nelle quali lavorano contemporaneamente centinaia di persone in giro per il mondo.

Con ricadute economiche anche sui territori.

Avremo territori vincenti e altri perdenti. I primi sono quelli che perderanno i vecchi mestieri ma riusciranno a essere un centro di attrazione per i nuovi. Quelli perdenti, perderanno i vecchi ma non saranno in grado di attrarre i nuovi. Lo smart working aiuta a lavorare da remoto, e può aumentare la produttività, ma rende altamente mobile il lavoro. In prospettiva, si crea una competizione tra territori per accaparrarsi nuovi posti di lavoro. Tuttavia, dopo questa esperienza si scoprirà che in molti contesti non si è ancora adeguati, ed è l’opportunità per fare passi avanti.

Quali sono i fattori che potrebbero rallentare questo processo?

Ci sono due fenomeni che potrebbero rallentare la diffusione di queste innovazioni. Il primo è dato dai grandi temi etici che queste sollevano, e si pensi alle macchine senza pilota o ai big data. Il secondo è il bisogno di relazioni umane, e si pensi agli infermieri, dove c’è bisogno di approccio umano. Oppure si pensi alle scuole: usare la tecnologia come integrazione all’insegnamento tradizionale è un fatto altamente positivo, ma pensare a una sua sostituzione porterebbe a enormi perdite dal punto di vista didattico.

Il mondo dell’istruzione, e penso all’università, come sta reagendo oggi al cambiamento? Se molti mestieri ancora non esistono, non esistono nemmeno i percorsi di formazione adeguati.

L’istruzione deve cambiare partendo da quattro punti. Primo: rafforzare le STEM, le materie tecnico scientifiche, perché la tecnologia bisogna capirla. Secondo punto: non abbandonare ma rafforzare le materie umanistiche, perché la tecnologia oltre che capirla e svilupparla bisogna anche educarla, risolvendone i problemi etici, e qui entra in gioco il tema della cosiddetta algoretica e della filosofia delle macchine. Il terzo aspetto riguarda le soft-skills, che la scuola deve imparare a insegnare: mi riferisco a capacità critica, di ragionamento, di relazioni con le altre persone, quindi dando attenzione agli aspetti emozionali, misurando il quoziente emozionale oltre che quello intellettuale. L’ultimo punto riguarda la flessibilità, l’adattabilità o la versatilità, ovvero la capacità di cambiare e di adattarsi.

Ha toccato tanti punti, ne prendo uno: il capitalismo della sorveglianza, termine mutuato dal libro di Shoshana Zuboff. Dobbiamo preoccuparci?

Le dual tecnologies sono tra loro tutte collegate, e hanno sempre due lati della stessa medaglia: danno opportunità straordinarie ma creano anche minacce senza precedenti. I Big data possono dare la possibilità di fare, ad esempio, diagnosi mediche rapidissime e accuratissime, ma possono anche essere utilizzate in maniera manipolatoria, per influenzare le decisioni commerciali delle persone ma anche quelle politiche. Nel libro cito i vari scandali a cui abbiamo assistito, o il fatto che nei regimi totalitari vengono utilizzate per reprimere e controllare le persone.

Immagino si riferisca ad esempio, parlando di scandali, al caso Cambridge Analitica.

C’è il tema che riguarda la proprietà e il valore dei dati. Chi prende i dati dovrebbe dare in cambio una controparte economica, che sia un prezzo o una tassa. Sui dati pubblici ci sono aziende che hanno fatto una fortuna, e pensiamo a Mariana Mazzucato e all’idea di fare profitti privati su dati pubblici. Nell’economia dell’informazione i dati sono il nuovo petrolio, ma quando si scoprì che il petrolio era fonte di ricchezza, le aziende petrolifere vennero tassate. Nell’era dei dati è giusto che il dato abbia un prezzo, e che l’antitrust controlli le società che da grandi quantità di dati traggono un vantaggio competitivo.

Poi c’è il tema della personalità giuridica dei robot.

Anni fa, una macchina senza pilota di Uber ha ucciso una donna: di chi è la colpa in quel caso? Il 53% delle transazioni finanziarie negli Stati Uniti è fatta da algoritmi: se perdi soldi, di chi è la responsabilità? Lo stesso accade se un robot medico sbaglia una diagnosi. Bisogna perciò porsi il tema: chi fabbrica il robot, chi lo sviluppa, chi lo educa? Dietro tutto questo c’è il tema etico, che è quello più importante.

Come fare perciò per evitare la crescita insostenibile e la contrapposizione uomo-macchina, per governare cioè il cambiamento epocale a cui siamo sottoposti?

È importante ricordarsi la centralità dell’uomo, e di usare la tecnologia per aumentare la qualità della vita e in parallelo anche la produttività e la crescita. Da qui nasce il titolo del mio libro, “Fatti non foste a viver come robot”. Per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, dobbiamo comportarci meno come cow-boy e più come astronauti. I primi, si dirigono a ovest pensando che le risorse siano infinite. I secondi, sanno che le loro risorse nella navicella sono limitate, e devono farvi attenzione, perché se ne abusano rischiano di finire male.




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