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Il coronavirus e l'ecologia delle parole


Il coronavirus e l'ecologia delle parole

Nell’emozione collettiva e crescente di questi giorni riflettere con distacco su quanto sta accadendo non è semplice e può sembrare cinico, ma un dato elementare di riflessione s’impone: la realtà dei numeri sull’influenza da coronavirus - numeri preoccupanti soprattutto per gli scenari incerti di diffusione futura, ma numeri in sé ancora contenuti - appare, si perdoni il gioco di parole, largamente ininfluente rispetto all’immagine “pandemica” che le coscienze di tutti noi si stanno venendo a formare del fenomeno.

Certo un qualche divario tra realtà e percezione è fisiologico quando si tratta di eventi che toccano aspetti cruciali del vivere comune: basti pensare a temi al centro da anni del dibattito e dello scontro politico come l’immigrazione o la sicurezza delle città. Ma in questo caso il divario è un abisso di dimensioni totalmente inedite.

Citiamo un unico esempio: mentre nel 1968 il mondo stava fronteggiando una grande “pandemia” influenzale, quella proveniente da Hong Kong, che solo negli Stati Uniti fece oltre 30 mila morti (un milione nel mondo), l’economia americana cresceva a doppia cifra e le università americane, come quelle di tutto il mondo occidentale, anziché chiudere per la “pandemia”, stavano vivendo una stagione di esplosivo fermento vitale…

Ciò indica, ci pare, che la vera questione ancora prima che sanitaria o semplicemente politica, sia antropologica. Riguarda il fatto che è cambiato, a questo punto forse irreversibilmente, il nostro rapporto con la vita e la morte. Quest’ultima, in particolare, ce la immaginiamo anche troppo, ovunque, e non siamo più in grado — in questo forse meno maturi dei membri di società apparentemente meno avanzate delle nostre — di collegarla, come è naturale che sia, al ciclo della vita.

Il fatto che un esiguo numero di persone perda la vita o rischi di perderla in fenomeni eccezionali, improvvisi, “immediati”, e per questo massimamente “sensazionali”, come epidemie, disastri naturali, guerre, terrorismo, è per noi contemporanei assai più rilevante, dunque di fatto assai più grave, di quanto non lo fosse in passato la morte, in conseguenza di quegli eventi analoghi o in sé più catastrofici, ma molto meno “narrati”, di milioni di persone.

È meglio così? Da un certo punto di vista, senza dubbio. Questa preoccupazione “aumentata” mostra che oggi la vita umana conta più di prima, che la morte di alcune migliaia di persone nel mondo per effetto del coronavirus ci sembri, una volta che su di essa si siano accesi i riflettori mediatici, molto più intollerabile e “apocalittica” di quanto, ai superstiti, dev’essere sembrata la morte dei tre quinti della popolazione di Venezia nei 18 mesi che seguirono l’inizio della pestilenza del 1347.

Peraltro, questo stesso sentimento si è rivelato un antidoto potente, almeno nel mondo democratico, rispetto all’idea di guerra, annichilendo alla fine certi impulsi “bellicisti” che in passato contagiavano facilmente le opinioni pubbliche. Un antidoto che ci fa ormai percepire come sempre più eccezionale, come sempre più irrevocabilmente dannoso, quello “stato di guerra” che fino a non molti decenni fa era invece considerato perlopiù la norma e non di rado una “buona” norma. 

Ma siamo sicuri che, al fondo, nasca tutta da qui questa sorta di “iperattenzione” per la salute collettiva esplosa con la crisi del coronavirus? Davvero si spiega soltanto con il fatto che sentiamo la vita umana come sempre più sacra? Secondo noi no. Milioni di esseri umani in questo momento stanno morendo, o comunque vivendo una vita non degna di essere vissuta, a causa di squilibri planetari ormai parossistici (basta rivolgere per un attimo lo sguardo a ciò che sta succedendo alla frontiera greco-turca), dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici, ma l’incubazione di questi mali è troppo lunga, la loro dinamica troppo complessa e troppo poco “immediata”, perché la sensibilità degli organi comunicativi attuali, calibrata sull’unica forma di temporalità che è in grado di riconoscere, vale a dire per l’appunto l’immediatezza, ne sia scossa con la stessa, elettrica, intensità.

Dove porta questa disimmetria tra realtà e percezione? Una risposta meditata condurrebbe lontano. In breve si può metterla così: se di essa fossimo consapevoli, se semplicemente ci stessimo preoccupando di “prevenire” perché davvero mossi dall’idea che oggi una vita umana vale mille volte di più che nel passato e che dunque sia doveroso anche sopportare costi economici stratosferici, come quelli che l’Italia e il mondo si stanno accingendo a pagare, per evitare il rischio che le poche migliaia di vittime del coronavirus registrate fino a oggi diventino dieci o cento volte di più, allora avremmo fatto un grande salto di civiltà, pieno di luminose conseguenze anche in altri campi da quello strettamente sanitario.

Temiamo invece che quella che oggi stiamo vivendo come una “pandemia” ben poco abbia a che vedere con la condivisione delle sorti di ogni singolo individuo del genere umano e molto, invece, con quella sorta di isteria collettiva procurata dalle istanze profilattiche che apparati tecnologico-comunicativi sempre più capillari riescono ormai, anche inconsapevolmente, a diffondere, impiantando ciò che più di un filosofo, cito tra questi, in Italia, Roberto Esposito, ha chiamato — profeticamente se guardiamo agli eventi odierni — il paradigma dell’immunitas.

Abbia, cioè, a che vedere, per dirle in altri termini, con un grande spettacolo — la parola latina spectaculum richiama innanzitutto l’atto del guardare qualcosa dal di fuori; qualcosa cui, più che partecipare, si assiste da lontano senza sporcarsi le mani — di finzione, in cui ogni parola vale ogni altra e alla fine più nulla. Esattamente come la parola “pandemia”, usata come in questi giorni in un senso sconfinatamente estensivo.

Quali soluzioni? Nessuna alle viste, almeno in questo scorcio d’epoca. Una raccomandazione di buon senso sì, però, e questo impatta direttamente sulle drammatiche questioni odierne: stare attenti a non giocare con l’”ecologia delle parole”, almeno da parte di chi, in campo medico come in ogni altro campo specialistico, dovrebbe invece insegnare a usarle, le parole, nel loro significato autentico, senza farsi prendere da tentazioni spettacolari.

Questo ci darebbe la speranza che la nostra civiltà non si è ancora del tutto avvitata in una danza apocalittica che basta solo qualche parola in libertà, ancor prima dei fatti, per mettere in moto. 

 

Foto di <a href="https://pixabay.com/it/users/distelAPPArath-2726923/?utm_source=link-attribution&amp;utm_medium=referral&amp;utm_campaign=image&amp;utm_content=4937348">Markus Distelrath</a> da <a href="https://pixabay.com/it/?utm_source=link-attribution&amp;utm_medium=referral&amp;utm_campaign=image&amp;utm_content=4937348">Pixabay</a>





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