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Rassegna del 28 Dicembre 2017
    

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Il vero fashion è slow


Dall’impatto ambientale dei vestiti “usa e getta” alle alternative possibili per una moda disinquinata e durevole. I numeri, le campagne e le imprese che stanno cambiando l’industria dell’abbigliamento

di Silvia Zamboni

L’industria della moda è uno dei comparti a maggiore impatto ambientale. Stando ai dati pubblicati dal Boston consulting group nel rapporto “The Pulse of fashion”, presentato lo scorso maggio durante la “settimana della moda” di Copenaghen, nel solo 2015 la produzione mondiale tessile ha impiegato 79 miliardi di metri cubi d’acqua e ha emesso in atmosfera 92 milioni di tonnellate di CO2. Una pressione destinata ad aumentare: il rapporto stima che, di questo passo, il previsto incremento della popolazione mondiale farà aumentare il consumo di capi di abbigliamento, al 2030, del 63%, portandolo dagli attuali 62 milioni di tonnellate a 103 milioni.
Numeri allarmanti che confermano il giudizio di Chiara Campione, senior corporate strategist della campagna di Greenpeace per una moda disinquinata e durevole: «La moda, in particolare la fast fashion usa-e-getta dei grandi marchi internazionali, è di fronte a un bivio: o imbocca la strada della sostenibilità, o continuerà a incrementare lo sperpero di materiali e risorse, la produzione di rifiuti tessili e l’impatto ambientale dovuto all’impiego di sostanze chimiche tossiche nei processi di lavorazione», ad esempio di tessitura e tintura dei tessuti. Non ha dubbi in proposito: «Bisogna premere con forza il pedale del freno: ci vuole una moda slow». Che tradotto in obiettivi, secondo Greenpeace vuol dire: rallentare la produzione di abiti, calzature e accessori; allungarne il tempo di vita; chiudere correttamente il ciclo post consumo.
«L’economia circolare è sulla bocca di tutti – osserva ancora Campione – peccato che dietro questa bella etichetta si nasconda il sogno impossibile dell’industria della moda di poter risolvere il problema del consumo eccessivo di risorse riciclando tutto. E la promozione di questo mito potrebbe avallare un iper-consumismo di vestiario privo di remore». Semmai, suggerisce Greenpeace, per garantire la gestione appropriata dei rifiuti tessili a fine vita andrebbe introdotta, come si è fatto in Svezia, la Extended producer responsability (Epr), la responsabilità estesa del produttore, che imponga il ritiro obbligatorio dei capi usati, evitando che finiscano in discarica o all’inceneritore. Una destinazione che, stima l’associazione, nei Paesi ad alto consumo di vestiario inghiotte l’80% dei rifiuti tessili. Quanto ai programmi di raccolta degli abiti usati attivati in alcune catene di fast fashion, «il problema è che solo una minima percentuale del riciclato rientra nella nuova produzione; tutto il resto è materiale di pessima qualità con cui si fabbricano pannelli isolanti e componenti per l’industria automobilistica, o stracci senza valore».
C’è poi un ulteriore aspetto inquietante: i tessuti sintetici, come ad esempio il poliestere, sia nella fase di produzione che di lavaggio domestico, possono rilasciare dei frammenti di microfibre plastiche che si accumulano in fiumi e oceani. Di fronte a un quadro così problematico come reagisce l’industria della moda? «Alcuni marchi di abbigliamento sportivo si fanno belli e “verdi” con scarpe e giacche a vento prodotti con plastica riciclata, che però viene dal riciclo delle bottiglie di pet e non dei capi d’abbigliamento sintetici dismessi», lamenta Campione. In questo scenario, una risposta positiva, che tiene conto anche della riduzione complessiva degli impatti ambientali, è rappresentata dalla fibra in nylon riciclato Econyl, prodotta in Italia da un’industria, la Aquafil, che recupera e ricicla reti da pesca abbandonate in mare o non più utilizzabili.

Gli hashtag di Greenpeace
Tornando alla fast fashion, come se ne esce? Tre gli hashtag lanciati da Greenpeace all’industria tessile per tracciare la nuova rotta della moda sostenibile: “make it last, make it right, make it different”. Ovvero: produci capi di qualità che durino a lungo, produci senza inquinare, adotta modelli di business e di marketing che favoriscano l’uso prolungato e l’attaccamento anche affettivo ai propri abiti, realizzando così un’autentica inversione rispetto alla fast fashion, che invece stimola gli acquisti compulsivi quale scorciatoia per la felicità effimera a buon mercato.
Utopia? Nient’affatto: la buona notizia è che nel mondo ci sono già quasi 400 marchi che vanno nella giusta direzione. Li ha censiti la stessa Greenpeace nello studio “Fashion at the crossroads”, che ha presentato a settembre a Milano in occasione della “settimana della moda”. Si tratta di aziende di taglia medio-piccola, le cui strategie sono però replicabili su larga scala. Come Vaude, un marchio tedesco di abbigliamento per la montagna, l’escursionismo e il ciclismo sportivo che sta investendo in servizi ai clienti per allungare la vita dei capi, disegnati per essere riparati con facilità. O Nudie jeans, azienda svedese che impiega solo cotone biologico nella produzione di jeans e abbigliamento casual, lavora sul rapporto emozionale e sull’attaccamento affettivo ai propri indumenti. L’offerta prevede un periodo di garanzia sui prodotti acquistati, e servizi gratuiti sia di riparazione e di rimodellamento, sia di compravendita dei capi usati e di riciclo di quelli irrecuperabili.
Se con il “make it last” le nuove parole d’ordine diventano “conserva, ripara, recupera, ricicla”, per poter riciclare in sicurezza occorre anche che i tessuti non contengano sostanze tossiche altrimenti, afferma Campione, «il sogno del riciclo si trasforma nell’incubo del riciclo tossico». Ed è a questo punto che interviene il “make it right”.
In Italia si è già formata una pattuglia di oltre cinquanta imprese che “fanno la cosa giusta” e hanno intrapreso il percorso Detox, sviluppato da Greenpeace, in massima parte associate al Consorzio implementazione Detox, come abbiamo raccontato sul numero di ottobre di Nuova Ecologia. Nel mondo di aziende in fase di detossificazione se ne contano un’ottantina, compresi grandi marchi come Zara e H&m. Ma si stanno affermando anche realtà come Orange fiber, l’azienda fondata da un gruppo di giovani imprenditrici siciliane che ha brevettato un tessuto ottenuto dal riciclo degli scarti dell’agroindustria degli agrumi. Simile alla seta, con la collezione “Ferragamo”, questa fibra è approdata nella vetrina dell’alta moda.
Un esempio di “make it different” è quello di Herbe Rouge, un piccolo brand parigino, presentato a Milano, che definisce la propria linea “ecofrugale”, si occupa dell’intera filiera produttiva, utilizza additivi chimici atossici e propone capi confezionati in cotone, lino e lana biologici. L’azienda inoltre impiega energia da fonti rinnovabili e rispetta le linee guida del commercio equo e solidale. Riflettori puntati anche su Kleiderei, un marchio fondato nel 2012 ad Amburgo da due amiche poco più che ventenni. Una coppia di “quasi rivoluzionarie”, come si descrivono, che una piccola rivoluzione nel marketing l’ha realizzata davvero: abiti e accessori si possono acquistare in leasing. Il servizio funziona così: ci si abbona con un versamento mensile o semestrale e ogni mese si riceve un pacchetto di cinque nuovi capi d’abbigliamento, scelti online o nei negozi della catena, capi che il mese seguente il corriere incaricato da Kleiderei ritirerà consegnandone di nuovi. Un modo per rinnovare il proprio guardaroba senza la necessità di possedere abiti e accessori, e che prevede il recupero dell’usato.

Piattaforma circolare
A conferma che un’altra moda è possibile c’è la piattaforma fashionpositive.org, punto di riferimento internazionale per aziende della moda che intendano adottare il modello di economia circolare certificato Cradle-to-cradle (C2c, in italiano “dalla culla alla culla”). Con un doppio obiettivo dichiarato: realizzare una moda senza rifiuti e senza compromessi. L’approccio C2c, sviluppato da William McDonough e Michael Braungart, nel settore tessile ha portato alla produzione di materiali e prodotti finiti che, fin dal concepimento in fase di design, prevedono a fine vita il riciclo di ogni componente. La vetrina di Fashionpositive.org espone nomi conosciuti del panorama modaiolo mondiale: si va da H&m, Kering, Stella McCartney (marchio vegetariano che ha bandito l’impiego di pelli e pellicce ma anche di materiali in pvc, e che ha adottato un codice etico per garantire condizioni di lavoro degne agli occupati) alle t-shirt in cotone di C&a, che hanno conquistato il grado “gold” della classificazione C2c.
A oggi sono ventitre le fibre, i tessuti e i capi certificati C2c presenti sul sito del Cradle to cradle innovation institute. «Ma in realtà ce sono molti di più », precisa Friederike Priebe, project coordination textiles presso l’istituto amburghese di ricerche ambientali Epea, parte della galassia C2c. Sulla campagna Detox e sulla critica al modello consumista della fast fashion, Priebe concorda con Greenpeace: «Dobbiamo dire addio per sempre al modello di economia lineare “estrai, produci, butta”, ovvero “dalla culla alla tomba”». Ma sul sogno del riciclo a tutto campo è più possibilista: «Ci sarà sempre bisogno di abiti per proteggerci dal caldo e dal freddo, senza contare che con l’abbigliamento esprimiamo in parte anche la nostra personalità. L’esperienza di C2c ci suggerisce di puntare sul corretto design e sull’uso di materiali naturali e sintetici innocui per l’uomo e l’ambiente, di cui si conosca la composizione e che si possano riciclare riconducendoli a fine vita alla biosfera o alla sfera tecnologica dei beni materiali. è un sogno in grande, certo. Ma ci sono gli strumenti per realizzarlo».

 

Fonte: nuova ecologia, 19 dicembre 2017




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