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L’obiettivo «sostenibilità» e il fattore «complessità» - di Francesco Giorgino


L’obiettivo «sostenibilità» e il fattore «complessità» - di Francesco Giorgino

La sostenibilità è un approccio, un metodo, una mentalità. È un processo continuo che si caratterizza per la capacità di soddisfare i bisogni dell’attuale generazione, senza compromettere quelli delle generazioni future

Ci sono parole capaci di imporsi nel discorso pubblico fino a conquistare il rango di paradigma. Tra queste c’è il lemma “sostenibilità”, il cui significato assume sfumature diverse a seconda della lingua adoperata. Gli anglosassoni parlano di sustainability con esplicito riferimento alla radice etimologica sustain, ovvero al pedale del pianoforte, la cui funzione operativa è quella di prolungare il suono. I francesi, invece, usano l’espressione développement durable rendendo ancor più evidente l’estensibilità diacronica di progetti, scelte e decisioni. Indipendentemente dagli aggettivi che accompagnano la parola qui analizzata, è possibile individuare un punto fermo intorno al quale sviluppare una serie di argomentazioni spendibili in questo particolare frangente storico.

La sostenibilità è un approccio, un metodo, una mentalità. È un processo continuo che si caratterizza per la capacità (oltre che per la volontà) di soddisfare i bisogni dell’attuale generazione, senza compromettere quelli delle generazioni future. Un concetto che vale per l’economia, la finanza, la politica, la cultura, la tecnologia, la sanità e tutti gli altri sistemi e sottosistemi sociali. A volte comprendiamo meglio il significato di una parola, prendendo in considerazione il suo contrario. Ad esempio, il sostantivo “insostenibilità” coincide con qualcosa che “non regge” alla prova delle evidenze empiriche, ma anche che non è sopportabile e supportabile poiché relativa ad una condotta non collocabile nel contesto di riferimento o poiché frutto di soluzioni non idonee né dal punto di vista metodologico, né del merito. Se ne deduce che è sostenibile solo ciò che è dimostrabile, opportuno, lungimirante, consapevole, efficace e soprattutto solo ciò che contrasta la tendenza tipica di molte società tardo moderne ad enfatizzare il ruolo del presente. La sostenibilità è l’opposto del presentismo, della logica del “giorno per giorno”, dell’ideologia della contestualità e della simultaneità, della cultura del cronometro. Qualunque decisione impatti nella dimensione collettiva poiché produce effetti generalizzati ed interconnessi tra loro deve porsi il problema della sua sostenibilità e della sua compatibilità con la “complessità”, altro tratto distintivo del XXI secolo. Tema quest’ultimo, messo ancor più in evidenza dall’emergenza pandemica e diventato alveo naturale per chi negli ultimi decenni ha coltivato l’ambizione di accreditare come centrale la teoria della globalizzazione.

La parola “complessità” viene dal latino cum-plicum che significa “con le pieghe” e cum-plexus che significa “con i nodi”. Per evitare che l’homo sapiens sapiens diventi homo simplex vanno riviste le logiche delle progressioni lineari e quelle del rapporto causa/effetto ed input/output. Più una società è complessa, più servono scelte sostenibili ad opera di istituzioni, imprese, cittadini. Ed è anche per questo motivo che la parola “sostenibilità” va ulteriormente denotata e connotata per definirne la sua reale portata semantica. Il risultato di quest’operazione comporta che si triangoli intorno a tre categorie: sostenibilità economica e finanziaria; sostenibilità sociale e culturale; sostenibilità ambientale. Quanto alla prima categoria, si ricordi che essa si colloca alla base dello sviluppo sostenibile e che fa riferimento alla capacità di un sistema di generare una crescita duratura dei principali indicatori economici, ovvero ricchezza e occupazione. Sostenibilità economica e finanziaria significa anche garantire efficienza e performatività. Quanto alla sostenibilità sociale e culturale, tutto ruota intorno al benessere, al contrasto delle disuguaglianze, alla garanzia del valore dell’equità. Si inserisce in questo quadro il concetto di responsabilità sociale d’impresa. Concetto riscontrabile anche nella terza categoria, che è quella della sostenibilità ambientale. In questo caso il fondamento, in termini ontologici e fenomenologici, alberga nella consapevolezza che le risorse di un pianeta non sono infinite e che vanno preservate con cura, senza sprechi.

Qualunque processo strategico e deliberativo voglia tenere in considerazione i tre piani appena descritti deve porsi il problema di definire, affrontare e comunicare da un lato i vantaggi e dall’altro gli svantaggi delle diverse opzioni a disposizione. Questo significa cultura della sostenibilità nell’era della complessità. La formula del valore ci viene in soccorso. Al numeratore misuriamo i benefici di un progetto o di una scelta e al denominatore i suoi costi. In entrambi i casi lo facciamo prendendo in esame risvolti economici, sociali ed ambientali. Ridurre i costi è importante, ma occorre verificare anche che non diminuiscano o che non si annullino contemporaneamente i benefici, altrimenti il valore finale rimarrà lo stesso, quando e se non perderà di consistenza. Occorre fare in modo che la sostenibilità non si trasformi solo in uno slogan da utilizzare nelle comunicazioni istituzionali e in quelle d’impresa per moda o, peggio ancora, per adesione alla logica del “politicamente corretto”. Un conto è far accrescere il proprio valore percepito e, quindi, la propria reputazione usando leve capaci di andare realmente incontro ai bisogni dei cittadini e alle priorità della società, un conto è farlo obbedendo solo alle leggi della contingenza e della convenienza. L’Istat dice che l’Italia è diventato un Paese un po’ più sostenibile e che è sulla strada giusta rispetto al perseguimento degli obiettivi previsti dall’Agenda Onu 2030, ma la situazione si presenta a macchia di leopardo. Sono poche le regioni best performer. Regioni quasi tutte del Nord. Diversa la situazione nel Mezzogiorno.

Ricorrendo al principio della sostenibilità, da un lato cambia il processo deliberativo. Dall’altro cambia il modello produttivo. Ha ragione Kotler quando dice che il capitalismo sta subendo significative trasformazioni, cominciando a tracciare un sentiero che potrebbe persino condurre ad una sorta di “post-consumismo”. Etichetta che si addice ad un contesto contrassegnato dalla presenza, tra gli altri, di sostenitori della decrescita, della conservazione e del riciclo dei beni e di attivisti climatici. Si stanno confrontando due idee. Da un lato c’è chi pensa che il cittadino-consumatore debba e possa soddisfare i propri bisogni e i propri desideri senza troppi condizionamenti. Dall’altro c’è chi ha maturato la consapevolezza che le risorse della Terra sono illimitate. Vedremo quale sarà l’impatto finale della pandemia sull’una e sull’altra.

 




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