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ISSUE 362

Perché alcune persone non si fidano dei contenitori riutilizzabili? Lo spiega la psicologia

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Perché alcune persone non si fidano dei contenitori riutilizzabili? Lo spiega la psicologia

Due studi dell’università di Sheffield e uno dell’università del Michigan cercano di individuare quali sono gli ostacoli percepiti dai cittadini di fronte alle forme di riuso e riutilizzo di contenitori e imballaggi. Per capire come migliorare il servizio e rendere più efficace la comunicazione.

 

Se siete stati negli ultimi venti anni in Germania non vi sarete sorpresi di fronte alle robuste bottiglie di plastica completamente graffiate quando comprate al supermercato la vostra bibita preferita. Perché sono decenni, appunto, che funziona così: acquistate il prodotto pagandolo leggermente di più e poi riconsegnate la bottiglia, che verrà lavata, sterilizzata e tornerà nel circuito della grande distribuzione, mentre a voi restituiranno la quota pagata in più. Si chiama deposito su cauzione e in Germania e Danimarca funziona benissimo.

 

Non si può dire altrettanto del resto dell’Unione europea. In tanti Paesi, Italia compresa, c’è una diffusa riluttanza nell’adottare misure analoghe. Nonostante sarebbe il sistema più logico ed efficace, insieme alla vendita di prodotti sfusi, per ridurre gli imballaggi in plastica monouso. Della mancanza di visione della classe politica di fronte al tema centrale della plastica monouso si parla spesso, meno della refrattarietà di alcune persone di fronte a soluzioni del genere.

 

Se il deposito su cauzione e la vendita di prodotti sfusi rappresenteranno una svolta nella gestione degli imballaggi, molto dipenderà, infatti, dalle percezioni, convinzioni e motivazioni degli individui e delle aziende nei confronti del riuso e del riutilizzo. Un po’ come con la raccolta differenziata, che nel tempo è decollata grazie al lavoro di comunicazione e la graduale responsabilizzazione dei cittadini. Perché, appunto, al di là degli auspicati interventi normativi, sono loro in prima persona ad acquistare, oggi, prodotti imballati in plastica monouso e un giorno, si spera, a riconsegnare i contenitori riutilizzabili.

 

Fino a quando un contenitore riutilizzato è “accettabile” per le persone?

 

Insomma: come rendere più efficiente e “appetibile” un sistema che inevitabilmente comporta qualche “noia” in più alle persone? È la domanda che si sono fatte due ricercatrici britanniche, Harriet Baird e Sarah Greenwood, autrici, insieme ad alcuni colleghi dell’università di Sheffield, nel Regno Unito, di due studi in cui la psicologia dei consumi è applicata al riuso e riutilizzo degli imballaggi. Con l’obiettivo di individuare gli ostacoli nella percezione dei consumatori, trarne spunti per migliorare il servizio e la comunicazione e incoraggiare il cambiamento nei comportamenti.

 

Gli studi partono da un dato statistico. Nel ciclo di vita del contenitore devono esserci sufficienti riutilizzi perché sia efficace il modello di riuso e si eliminino gli impatti negativi legati a questa pratica, che ci sono (per esempio legati al trasporto su strada degli imballaggi o semplicemente la plastica più resistente con cui vengono costruiti, ma anche il fatto se i contenitori vengano lavati a mano o in lavastoviglie).

 

I ricercatori dell’università del Michigan, dopo un’attenta analisi hanno individuato il numero esatto di riutilizzi perché i benefici siano superiori ai danni: almeno dodici volte. “Nel corso di 20 utilizzi – si legge nella ricerca – l’impronta energetica primaria dei contenitori riutilizzabili diminuisce del 54-67% e l’impatto sul riscaldamento globale del 71-80%. Inoltre, la diffusione di contenitori riutilizzabili ridurrebbe i rifiuti solidi dell’81% rispetto a un sistema continuato basato sul monouso”.

 

L’analisi sul ciclo di vita parla chiaro, ma nella quotidianità è possibile sperare adottando questa modalità di arrivare a un numero simile di riutilizzi? “Ci siamo domandati – ha spiegato la psicologa Harriet Baird mentre presentava i risultati della ricerca  dell’università di Sheffield durante un webinar organizzato da Planet Reuse – se fosse possibile individuare il momento in cui un contenitore non è più percepito come accettabile dalle persone”. Quando, insomma, non sono più disposti a riutilizzarlo.

 

I contenitori, inevitabilmente, più vengono usati nel tempo più si usurano, scoloriscono e si graffiano. “Abbiamo mostrato alle persone immagini di contenitori per il cibo d’asporto e bottiglie che variano da essere perfettamente nuovi a molto usurati”, spiega Baird. “Per ciascuna immagine abbiamo chiesto di rispondere se fossero disposte o meno a mangiare un pasto venduto all’interno di quella confezione. È emerso come le persone siano parecchio riluttanti a mangiare da contenitori che mostrano segni di usura. Su una scala da 1 a 100, la soglia media è stata piuttosto bassa: 24”, conclude l’autrice della ricerca.

 

Il primo studio: timori (irrazionali) igienico-sanitari

 

La scala del senso di “disgusto” legata al cibo non è ovviamente uguale per tutti i consumatori: pensate al classico baco nella frutta. Tuttavia, la fiducia delle persone intervistate si abbassava semplicemente di fronte alle immagini di usura e graffi nei contenitori, come se ci fosse un collegamento con motivazioni igieniche: più è stato lavato e appare opaco, più si associa allo sporco. “A questo punto abbiamo fornito ad alcuni gruppi di persone informazioni dettagliate sul processo di lavaggio e sterilizzazione per rassicurarli”, continua Baird.

 

Ebbene, qui il risultato è strabiliante. Non è cambiato nulla nelle risposte. “Se da un lato può essere spiegato col fatto che alcuni degli intervistati avessero eccessive preoccupazioni di carattere igienico-sanitario, magari perché germofobici, dall’altro dimostra come sia semplicemente l’immagine del contenitore a guidare la scelta dei consumatori e a scoraggiarli di fronte al riuso”, spiega la ricercatrice. Come se un imballaggio monouso fosse immune, invece, alle contaminazioni. Del resto l’irrazionalità è un aspetto centrale nella psicologia dei consumi e non si può non tenerne conto.

 

Il secondo studio: cosa spinge le persone al riuso

 

I dubbi legati al packaging sono in primo piano anche nello studio di Greenwood. Le interviste si sono concentrate per individuare la propensione al riutilizzo dei cittadini. Quando alle persone è stato chiesto l’uso che fanno di confezioni e imballaggi, la maggior parte ha risposto riciclo (53%), il 34% lo getta nell’indifferenziata, solo il 13% ha valutato come possibile soluzione il riuso e riutilizzo. E tra queste ultime due opzioni le più scelte sono state la ricarica nei punti vendita sfusi o il repurposing, mentre solo l’1% la riconsegna dei contenitori, alla base del deposito su cauzione. Eppure l’85% degli intervistati è favorevole in linea di principio all’acquisto di prodotti con confezioni riutilizzabili. Solo uno su sei lo fa, però, nella quotidianità.

 

Le persone intervistate, inoltre, erano disposte a riutilizzare la confezione di alcuni prodotti (ad esempio biscotti in una scatola di metallo, latte in una bottiglia di vetro, caffè in un barattolo di vetro, prodotti per la pulizia della casa e l’igiene personale in bottiglie di plastica). Per quanto riguarda il tipo di packaging, le persone si sono dimostrate più propense a riutilizzare barattoli (36%), bottiglie (20%), scatole o cartoni (23%), rispetto a involucri (2%) e lattine (3%). Infine erano più disposte a riempire nuovamente contenitori con prodotti per la casa o l’igiene personale piuttosto che il cibo.

 

La prima cosa da fare è lavorare sul packaging e sull’analisi del ciclo vita

 

Se il packaging è centrale, la prima cosa da fare è lavorare sul packaging per incoraggiare il riuso e il riutilizzo. “Se sappiamo che i consumatori non sono disposti a riutilizzare oggetti che appaiono usurati, allora dal punto di vista del design dobbiamo evitare che quel contenitore mostri segni di usura o dobbiamo provare a ripristinarlo in modo che nasconda facilmente la provenienza”, è la logica conclusione di Baird. Questo vuol dire sviluppare contenitori resistenti al frequente riutilizzo e ai ripetuti lavaggi industriali e facili da pulire per il cittadino.

 

Trovare l’equilibrio non è, però, semplice come si pensa. Infatti, per ridurre l’impronta di carbonio dei contenitori, come spiegano i ricercatori dell’università del Michigan, “i contenitori andrebbero fabbricati con plastica riciclata per ridurre in maniera decisiva la dipendenza dai combustibili fossili”. Però, “laddove ciò non sia possibile, le convinzioni dei consumatori sulle implicazioni dei cambiamenti nell’aspetto (ad esempio, che sia indicativo di contaminazione) devono essere messe in discussione”, è l’analoga conclusione dei ricercatori dell’università di Sheffield.

 

Cambiare la comunicazione per avere risultati migliori…

 

Quindi l’informazione e la comunicazione diventano strumenti indispensabili. Fare leva su motivi razionali come la scelta ecosostenibile per l’ambiente, tuttavia, potrebbe non bastare per due motivi. Prima di tutto, chi è sensibile a queste tematiche non ha bisogno di essere incoraggiato. D’altro canto, parliamo pur sempre di prodotti di consumo e quindi il marketing resta uno strumento utilissimo, se usato per indirizzare verso modelli di consumo consapevole.

 

“Possiamo cercare di cambiare il paradigma – ha spiegato Baird durante il webinar – per far vedere in un’ottica positiva ciò che è percepito negativamente: i graffi sui contenitori, per fare un esempio, sono altrettante cicatrici nella lotta ai rifiuti in plastica”. Oppure ideare un piano di comunicazione per riformulare i concetti. “La comunicazione – continua la psicologa – è più efficace per spingere all’azione se inquadri gli aspetti positivi a un livello elevato e quelli negativi a un livello inferiore. Qualcosa tipo: il riutilizzo è il nuovo riciclo (valore positivo), non farti prendere alla sprovvista senza avere il tuo contenitore (valore negativo)’”. Non si può, però, puntare solo sul marketing, infatti, perché è necessaria una corretta informazione (e formazione) per i cittadini.

 

Per esempio devono sapere che se solo il 5% di loro fa un viaggio in automobile esclusivamente per riportare il contenitore nei punti di raccolta, annullerebbe tutti i benefici ambientali del sistema di riuso e riutilizzo. E se tutti lavassero i contenitori per uso domestico nella lavastoviglie, ci sarebbe addirittura un aumento del 120% dell’impronta di carbonio. La formazione potrebbe essere fatta dagli stessi ristoranti, più vicini ai cittadini, suggeriscono i ricercatori del Michigan. Infatti, ha notato anche Baird, un approccio soft nel dare le informazioni si è in tutti i casi dimostrato il migliore. “Abbiamo scoperto – conclude Baird– che sui temi ambientali il messaggio funziona di più quando non è energico o eccessivamente assertivo”.

 

… ma poi bisogna agire (istituzioni per prime)

 

La comunicazione è importante, ma ovviamente non basta. Negli studi è emerso come gli intervistati erano disposti a restituire o ricaricare il contenitore nei casi in cui esistevano già sistemi di riutilizzo per quel prodotto (ad esempio latte in bottiglie di vetro nel caso inglese). I consumatori, infatti, si comportano in maniera relativamente abituale, tale da impegnarsi in ciò che loro o altre persone hanno fatto in precedenza (riconsegna delle bottiglie di vetro ) e sono meno disposti a fare qualcosa di nuovo (come riutilizzare i vassoi per microonde).

 

Il corollario è che per prima cosa devono quindi avere l’opportunità di impegnarsi in un sistema di riutilizzo. “Dato che i modelli di riutilizzo sono attualmente lontani da essere la norma – si legge nelle conclusioni della ricerca di Greenwood – anche le migliori intenzioni possono essere vanificate dalla mancanza di opportunità (ad esempio, un supermercato non consente a un consumatore di utilizzare il proprio contenitore per i prodotti della gastronomia)”.

 

Come ha dimostrato una recente inchiesta di Greenpeace, è proprio quello che accade in diversi supermercati italiani, dove nonostante la legge lo consenta, non viene data questa opportunità. Insomma: è utilissimo capire quali siano gli orientamenti dei cittadini, ma la prima cosa da fare è agire normativamente e creando le infrastrutture giuste per semplificare i sistemi di riuso e riutilizzo. E questo possono farlo le istituzioni, non i consumatori.

 

Tiziano Rugi

 

 

Photo: Correen

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