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ISSUE 364

Basta greenwashing, l’Ue prepara la Direttiva (ma fa le cose a metà)

economiacircolare.com

Basta greenwashing, l’Ue prepara la Direttiva (ma fa le cose a metà)

La nuova Direttiva vuole contrastare l’uso ingannevole e fuorviante che fanno molte aziende di dichiarazioni green nelle etichette e nelle pubblicità: dovranno provare la verità di ciò che affermano. Non sarà facile senza un sistema efficace di controlli: e già restano fuori tanti esempi di greenwashing. Mentre ci sono dubbi sull’effettività dei criteri di valutazione.

 

“Occasione sprecata”: è il commento più comune tra le associazioni ambientaliste e di consumatori alla nuova Direttiva Green Claim, annunciata il 22 marzo dalla Commissione europea. La lotta al greenwashing, l’ambientalismo di facciata deve essere una priorità e la Direttiva si concentra su tutte le “dichiarazioni green” presenti nelle etichette dei prodotti e nelle pubblicità. Le aziende dovranno obbligatoriamente fornire prove evidenti sulla fondatezza di tutte le affermazioni green. Purtroppo, però, il testo della Commissione è edulcorato, non tiene conto di alcuni esempi di evidente greenwashing come la cattura di carbonio e manca di concretezza nei criteri di valutazione.

 

Quando il marketing sfrutta i temi ambientali

 

Il dato di fatto è evidente: con la crescita di consapevolezza della popolazione della centralità dei temi ecologici, le aziende hanno cercato di sfruttarla economicamente dimostrando il proprio impegno nella difesa dell’ambiente: basta acquistare un qualsiasi prodotto per leggere nell’etichetta come la confezione sia composta da materiali riciclati, il prodotto sia carbon neutral, non abbia impatti sull’ambiente o contribuisca alla riduzione dei gas serra.

 

Cosa di per sé positiva e che in effetti darebbe vantaggio competitivo all’azienda. Il problema è che, spesso, non è così e le informazioni sono vaghe, fuorvianti o addirittura infondate. Una forma più sofisticata rispetto alle pubblicità degli anni Cinquanta: parecchi conosceranno quella del burro che “fa bene al cuore” perché “lubrifica vene e arterie”, o quelle, più divertenti ma sempre fasulle, sui benefici degli alcolici.

 

Almeno il 75% dei beni sul mercato già dal 2014 conteneva dichiarazioni green. Tuttavia, sempre secondo l’esecutivo Ue, nel 2020 almeno il 53,3% delle informazioni su ambiente e clima presenti in etichetta su un campione esteso di prodotti erano ingannevoli. E il 40% completamente prive di fondamento. Un esempio di informazioni fuorvianti sono i brick di cartone fatti con materiali riciclati: è vero, lo sono, ma l’impatto è positivo solo per l’indicatore “cambiamento climatico”. Se si analizzassero tutti gli altri indicatori del ciclo di vita, non emergerebbe, invece, alcun vantaggio nell’uso dei brick rispetto ad altri contenitori.

 

Cosa prevede la Direttiva Green Claim e il campo di applicazione

 

Ecco perché con la Direttiva Green Claim le aziende dovranno fornire prove scientifiche sulla veridicità delle dichiarazioni green, prendendo in esame l’intero ciclo di vita del prodotto. Le etichette ambientali, che secondo le stime di Bruxelles sono attualmente almeno 230, dovranno essere veritiere, trasparenti e verificate da terze parti. Le evidenze scientifiche sulle affermazioni green dovranno essere trasparenti e disponibili per tutti via QR code o sul sito web aziendale.

 

Le dichiarazioni o le etichette che utilizzano un punteggio aggregato dell’impatto ambientale complessivo del prodotto in termini di biodiversità, uso dell’acqua o cambiamento climatico non saranno più consentite. Le aziende che utilizzano dichiarazioni ambientali non comprovate per commercializzare i propri prodotti potrebbero essere sanzionate con multe pari ad almeno il 4% delle entrate o esclusioni fino a un anno dalla partecipazione ad appalti pubblici o sussidi.

 

Non si tratta dell’unica Direttiva dell’Unione europea sul tema, un fatto che è stato immediatamente criticato dalle aziende perché potrebbero creare sovrapposizioni. Esempi ne siano la Unfair Commercial Practices Directive, di più ampio respiro, e la Direttiva Empowering the Consumers for the Green Transition, attualmente sotto scrutinio del Parlamento europeo, che prevede nel dettaglio cosa le aziende non possano fare e quali pratiche commerciali siano considerate sleali. La Direttiva Green Claims, invece, si concentra su quanto le aziende comunicano volontariamente: estende quindi il campo di applicazione delle normative europee e stabilisce cosa le aziende possano fare in questo campo.

 

Secondo le previsioni della Commissione, contrastare il greenwashing non sarebbe solo una questione di corretta informazione, ma ridurrebbe le emissioni di circa 7 milioni di tonnellate di CO2 nell’arco di quindici anni.

 

Cosa rende la Direttiva (meno) efficace

 

Le parole sono importanti, soprattutto nell’ambito pubblicitario, dove vengono “strapazzate” dai pubblicitari per raggiungere i loro scopi. Connotare con un significato o un’aura positiva anche ciò che non lo è sta alla base del marketing e il concetto viene applicato utilizzando dichiarazioni green anche in settori che non sono ecosostenibili, come ad esempio la produzione di carne e latticini.

 

Perciò, dal lato dell’Unione europea, servono definizioni chiare su cosa sia una “dichiarazione green” e quando non venga rispettata, insieme a precisi criteri su come le aziende debbano provare le loro dichiarazioni.

 

Inizialmente la Commissione aveva indicato che avrebbe utilizzato una metodologia nota come Product Footprint per valutare le affermazioni ecologiche sui prodotti, ma l’indicatore è stato rimosso dal testo finale, limitandosi all’annuncio in futuro di una legislazione ad hoc “per integrare i requisiti sulla fondatezza per alcuni tipi di affermazioni”.

 

L’importante, inoltre, sarà soprattutto come verrà strutturato il sistema dei controlli sulle dichiarazioni green e le pubblicità delle aziende. La bozza della proposta della Commissione, però, si limita ad affermare che gli Stati membri dovranno provvedere ad allestire specifiche agenzie per fare indagini, controlli regolari e sanzionare. Senza controlli severi, la Direttiva potrebbe sortire l’effetto opposto di legittimare le dichiarazioni green delle aziende.

 

Cosa non va nella Direttiva Green Claim

 

Non è l’unico aspetto a lasciare perplessi nel progetto della Commissione. La proposta di direttiva non comprende tra il greenwashing tutte le forme di rimozione di carbonio, che nella maggior parte dei casi non hanno alcun fondamento scientifico. Il nuovo regime consentirebbe comunque alle aziende di combustibili fossili di “compensare” le loro emissioni attraverso progetti di rimozione di CO2 come le foreste, che però hanno un alto rischio di ricaduta negativa sulle emissioni a causa del rilascio da parte degli alberi di anidride carbonica quando bruciano o nella fase di decomposizione.

 

Dovrebbero essere vietate, inoltre, come fanno notare molte associazioni ambientaliste tra cui l’European Environmental Bureau (EEB), tutte le “dichiarazioni sulla neutralità del carbonio, poiché fuorvianti per i consumatori, in quanto suggeriscono che i prodotti non hanno alcun impatto sul clima, cosa impossibile da ottenere da un punto di vista scientifico”. La proposta trapelata consente, invece, questo tipo di dichiarazioni semplicemente aumentando i requisiti di trasparenza: “Questa sarebbe un’occasione persa sulla strada per raggiungere un’economia carbon neutral, che richiede invece alle aziende di concentrarsi sulla riduzione delle proprie emissioni”, nota l’EEB.

 

Insomma, senza arrivare a dire che sia la Commissione europea stessa a fare greenwashing legislativo, sicuramente nel corso dei lavori le organizzazioni di settore e le lobby sono riuscite ad annacquare il testo e indebolire le linee guida. Quando ci saranno risposte più concrete da parte delle istituzioni di Bruxelles su tutti gli aspetti ancora in sospeso, si capirà se si tratta di timori oppure di misure destinate ad avere poca efficacia.

 

Tiziano Rugi

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