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ISSUE 399

Il digital product passport e l’impatto sulla moda

nonsoloambiente.it

Il digital product passport e l’impatto sulla moda

Dotare i vestiti del digital product passport per alleggerire l’impatto ambientale del settore tessile è tra le novità introdotte dal regolamento UE.

 

I capi di abbigliamento avranno il proprio passaporto, anzi: il digital product passport. Il regolamento Ecodesign for Sustainable Products Regulation per un tessile sostenibile e circolare è l’insieme di regole che l’Unione Europea ha deciso di varare nel 2022. L’obiettivo è quello di ridurre l’impatto che produzione e consumo di tessili hanno sull’ambiente, incentivandone anche la riparazione e, auspicabilmente, allungandone il periodo di utilizzo. Tra le misure introdotte, compare il digital product passport, il documento che accompagna capi e accessori per decretarne il livello di sostenibilità.

 

Cos’è il digital product passport?

 

Si tratta di un codice digitale apposto sul capo e che, una volta scansionato, dà accesso a una quantità di informazioni estremamente dettagliate. Non solo: rappresenta una serie di informazioni che, tramite il sistema di blockchain, risultano rapidamente verificabili e perciò più facili da segnalare come parziali o imprecise. Senza dubbio, uno strumento di trasparenza, sia ambientale che commerciale, che permetterebbe ai consumatori di fare acquisti più consapevoli. Uno strumento che diventerà effettivo a partire dal 2026 e potrà rappresentare un’ulteriore garanzia di qualità e durevolezza di un prodotto.

 

Come funziona il DPP?

 

Il regolamento sul DPP, infatti, prevede l’apposizione di un’etichetta o un codice che, inquadrato, possa far accedere il consumatore a tutte le informazioni del capo. Tra queste, modalità di produzione, composizione e indicazioni di lavaggio, per prolungarne il più possibile il ciclo di vita. Informazioni estremamente dettagliate che permettono all’acquirente di conoscere la provenienza dei tessuti, ad esempio. Una normativa pensata per rappresentare un beneficio per l’ambiente sia sul versante del consumatore, sia su quello del produttore. Il DPP amplia, di fatto, la responsabilità del produttore in merito alla quantità delle informazioni fornite, nonché sulla sensibilizzazione dei consumatori. Attraverso il digital product passport, infatti, l’azienda si assume la responsabilità di fare una comunicazione chiara e lineare sui propri articoli. Non solo: deve fornire agli acquirenti anche le corrette norme di manutenzione e riparazione per preservare il più possibile i prodotti.

 

Tracciabilità, consapevolezza e sostenibilità

 

Si tratta di consapevolezza ed eco-compatibilità: due attitudini che è bene allenare nel quotidiano, sia che si tratti di acquisti dall’ingente spesa, che di altri molto più modesti. Instillare nei consumatori l’idea che il valore di un capo non sia un aspetto negoziabile potrebbe arginare la tendenza all’iper-consumo di prodotti di scarsissima qualità. E, insieme, far comprendere come la tracciabilità possa essere un indice concreto e verificabile di sostenibilità. Come si è già detto, a partire dal 2026 queste diventeranno regole a tutti gli effetti, ma quello in corso è un “cuscinetto temporale” utile alle aziende per tararsi sul DPP. Ad esempio, sono già diversi i brand rappresentativi del settore luxury che hanno dotato i propri capi del digital product passport. E non è un caso che questa spinta arrivi proprio dal mercato del lusso, una nicchia che non manca mai di sottolineare il proprio prestigio.

 

Il settore luxury e il digital product passport

 

La produzione Tod’s si basa su una pelletteria di costi e qualità elevati che vede nella borsa Di Bag il modello di riferimento. Proprio questo modello è stato dotato di DPP e già commercializzato con i suoi documenti digitali. È avvenuto lo scorso novembre, in concomitanza con l’ingresso del brand nel consorzio blockchain Aura, quando Tod’s ha reso noto il proprio sistema di certificazione digitale. Ma l’azienda del gruppo Della Valle non è l’unica ad aver anticipato i tempi. Meritevole di attenzione è anche la partnership tra Chloé e Vestiaire Collective che utilizza proprio il metodo DPP per immettere sul mercato capi tracciabili. La collezione P/E 2023 firmata Chloé, infatti, è stata interamente digitalizzata anche per garantire la sua validità nel circuito pre-loved. Se queste operazioni vedano unicamente nelle strategie di marketing il proprio vettore, non è possibile dirlo. Non sarebbe la prima volta che ci si trova davanti a operazioni puramente commerciali ma che, tangenzialmente, producono un effetto benefico sull’ambiente. E già questo potrebbe rappresentare un punto di partenza per operare attivamente secondo criteri di maggiore sostenibilità e, contestualmente, “educare” gli acquirenti alla consapevolezza ed eco-compatibilità degli acquisti.

 

Letizia Dabramo

 

Photo: Lisa Alam 

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