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ISSUE
407
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Un centro di ricerca giapponese ha realizzato un materiale stabile, resistente e soprattutto facilmente riciclabile e che per di più non rilascia composti tossici né anidride carbonica una volta abbandonati nell’ambiente. Una speranza nella lotta all’emergenza globale dell’inquinamento da plastica.
Siamo abituati a sentir parlare dell'ormai famigerata «isola galleggiante» nell'oceano Pacifico, composta da rifiuti plastici che ha una superficie grande oltre quattro volte quella della Germania. Sentiamo parlare delle microplastiche, quei frammenti derivanti dal disfacimento di indumenti e flaconi grandi da pochi millimetri a 300 micrometri che sono stati ritrovati addirittura anche nel sangue umano. Sappiamo molto ma non conosciamo ancora tutto. Qualcuno cerca una soluzione politica al problema per il futuro. Qualcuno va alla ricerca di «batteri mangiaplastica» in grado di degradare completamente il PET, il polietilene tereftalato, usato per produrre bottiglie d’acqua. Ora qualcuno ha affrontato il problema alla radice e ha finalmente inventato una plastica che, per sua natura, non è inquinante. I ricercatori giapponesi del RIKEN Center for Emergent Matter Science, in collaborazione con la facoltà di Chimica e Bioingegneria dell’Università dI Tokyo, infatti hanno sviluppato una nuova famiglia di plastiche con le stesse caratteristiche di resistenza, durabilità e duttilità di quella convenzionale (e con cui quindi si possono produrre dai robustissimi paraurti ai morbidissimi stuzzicadenti) ma che è naturalmente biodegradabile. Col tempo si decompone anche solo nell'acqua di mare e questo fa tutta la differenza del mondo. I risultati sperimentali del loro lavoro sono stati pubblicati di recente sulla rivista Science.
Naturalmente biodegradabile
Se entrerà effettivamente in produzione, questa plastica avrà quindi la capacità di cancellare da quel momento la questione dell'inquinamento negli oceani o nei nostri boschi o nelle discariche. La nuova plastica dovrebbe quindi contribuire a ridurre l'inquinamento da microplastiche nocive che si accumulano negli oceani e nel suolo entrando alla fine anche nella catena alimentare. Le attuali plastiche biodegradabili, come il PLA (l’Acido Polilattico derivato dalla trasformazione degli zuccheri presenti nel mais, nella barbabietola e da altri materiali naturali e rinnovabili e non derivati dal petrolio), quando finiscono in mare risultano comunque insolubili e quindi non decomponibili.
Come è stata trovata la soluzione
Il team giapponese ha lavorato sulle «plastiche supramolecolari», polimeri con strutture tenute insieme da interazioni reversibili. Le nuove plastiche sono state realizzate combinando due monomeri ionici che formano i cosiddetti ponti salini reticolati, legami chimici che forniscono resistenza e flessibilità. Tutto è cambiato quando è stato trovato un elemento di stabilità dei legami chimici nell’uso dell’esametafosfato di sodio e del solfato di guanidinio, un composto fortemente alcalinico. A vari tipi di solfato di guanidinio corrispondono le varie durezze della plastica. La nuova plastica è atossica e non infiammabile, quindi non emette CO2, e può essere rimodellata a temperature superiori a 120°C come le altre termoplastiche.
Il punto interrogativo
La grande domanda riguarda i costi di produzione (uno dei benefici della plastica derivata dal petrolio sta proprio nei bassi costi di realizzazione su larga scala) e non ci sono ancora notizie su quanto costerebbe l’industrializzazione finale; in secondo luogo va tenuto presente che tra i principali elementi inquinanti in mari e oceani vi è l'attrezzatura da pesca, soprattutto le reti, che chiaramente non possono dissolversi a contatto con l'acqua marina e per cui la soluzione è ancora da trovare.
In compenso, i test fatti con i fogli della nuova plastica lasciati pochi centimetri sottoterra hanno dato risultati incredibili e si sono degradati completamente nel corso di soli 10 giorni, fornendo al terreno fosforo e azoto ideali come un fertilizzante.
Enrico Maria Corno
Rassegna del 20 Dicembre, 2024 |
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