La Newsletter di ESO
ISSUE 418

E' il momento della responsabilità

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E' il momento della responsabilità

Lunedì scorso presso la Prefettura di Milano il presidente di Confindustria Moda Luca Sburlati ha firmato il “Protocollo per il contrasto all’illegalità negli appalti nella filiera produttiva della moda”. All’interno del documento sono state definiti alcuni principi base, che dovranno essere sviluppati in regole operative. Dopo le irregolarità rilevate nelle supply chain di alcuni brand del lusso, stabilire delle regole condivise, per cercare di isolare chi non rispetta le regole ma soprattutto per rendere responsabili anche chi dovrebbe controllare, è un gesto irrinunciabile. Chi non è riuscito a farlo, ha pagato un costo alto: vi ricordate il caso di Leicester?

 

Cosa prevede il Protocollo? Innanzitutto l’applicazione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, strumento centrale per garantire condizioni di lavoro eque. Poi la trasparenza sulla filiera, sull’organizzazione e le aziende coinvolte; tutto questo senza un appesantimento delle procedure. Si tratta di un Protocollo che per adesso riguarda solo la Lombardia: “Pur trattandosi di un accordo definito su base territoriale, è evidente la portata anche nazionale di questo esperimento: ciò sia per la rappresentatività su base nazionale di molti soggetti firmatari che per le caratteristiche specifiche delle filiere produttive della moda” ha dichiarato il Presidente di Confindustria Moda Luca Sburlati. La speranza è che il Protocollo venga presto esteso a livello nazionale.

 

 

Mi sembra logico, le filiere non hanno confini territoriali. Mi sembra anche importante che soggetti istituzionali e associazioni di categoria abbiano fatto un gesto concreto che di fatto sottolinea che l’industria della moda in Italia ha un problema che deve risolvere. Ognuno prendendosi la propria parte di responsabilità.

 

Vi menzionavo il caso di Leicester, il distretto produttivo dell’abbigliamento più grande della Gran Bretagna. Nel 2020 un’inchiesta svelò che nella catena di fornitura del brand Boohoo c’erano lavoratori che percepivano 3,5 sterline all’ora: si parlò di “schiavitù”, ma soprattutto le indagini dimostrarono che non era solo la filiera di Boohoo ad avere questo problema, ma che di fatto questa era la realtà del distretto in generale (ne ho parlato qui e in diverse newsletter ho seguito l’evoluzione del caso).

 

Adesso Leicester è un distretto fantasma: se nel 2020 operavano 1500 imprese dell’abbigliamento, adesso ne sono rimaste 97. Non solo: quelle che ancora riescono a lavorare, hanno ridotto notevolmente le loro dimensioni, scendendo da 50/60 dipendenti a 5/10. A Leicester prima si producevano grandi quantitativi per il mercato interno, adesso quella produzione si è spostata, soprattutto in nord Africa.

 

Le fabbriche vuote e silenziose di questo reportage appena uscito su Sky News ci ricordano che le cose possono cambiare velocemente, se non si ha la determinazione di prendere atto di un problema e attivarsi per risolverlo.

 

Secondo un rapporto di UKFT - l'associazione britannica di lobby della moda e del tessile - ben il 95% delle aziende di abbigliamento ha ridotto o eliminato completamente la produzione di abbigliamento nel Regno Unito. Circa il 58% dei brand, in termini di fatturato, ha ora una politica esplicita di non approvvigionamento di abbigliamento nel Regno Unito.

 

Alla concorrenza dei giganti cinesi dell’ultra fast fashion, si aggiungono anche le ricadute del recente accordo siglato tra Gran Bretagna e India: saranno ridotte tariffe e procedure per l’esportazione da e verso l’India. Nella lista dei prodotti oggetto dell’accordo ci sono anche calzature e abbigliamento, che verranno importati a basso costo. Questo potrebbe segnare la fine del distretto inglese di Leicester.

 

Questa storia ci insegna che i brand possono decidere di boicottare un territorio dove il rischio di irregolarità è troppo alto, anche se molte volte questa è alimentata da una politica dei prezzi che spinge in questa direzione. Purtroppo nel mercato c’è sempre chi svolge lo stesso servizio a un prezzo più vantaggioso e per una filiera globale come quella del fashion spostarsi non è un problema. Quando l’immagine di un territorio è compromessa, è più semplice scappare piuttosto che cercare di risolvere la situazione.

 

Per fortuna ci sono distretti e imprese del made in Italy che sono ancora necessari per assicurare produzioni di qualità, che non sono facilmente sostituibili. Alcune considerazioni:

 

  • basare la competizione solo sul prezzo rende un’impresa sostituibile con un’altra che costa meno;

  • offrire solo una lavorazione o un prodotto standard non crea un vero e proprio valore per il brand, che può trovare un altro fornitore;

  • accompagnare alla produzione un servizio di prototipia e customizzazione è un plus che rende il fornitore più prezioso per il brand;

  • l’azienda committente deve garantire che i subfornitori seguano il suo stesso standard etico e ambientale, perché ne è responsabile;

  • un’azienda non è isola: un danno reputazionale di un’impresa che opera in un distretto è un danno per l’intero distretto.

 

Proprio per questo è importante stabilire delle regole per garantire il rispetto delle regole nelle filiere. Ma queste, si sa, sono sempre in qualche modo raggirabili: quello che la filiera della moda deve fare è riscoprire il valore dell’etica e avere il coraggio di isolare chi non rispetta questi principi, deve essere una scelta profonda, che richiede impegno ma anche formazione, perché spesso diamo per scontati certi comportamenti che invece non dovrebbero essere accettati.

 

Avete altro da aggiungere?

 

E' uscita la mappa del rischio EUDR

 

Dopo quello che è successo con l’approvazione UE della Corporate sustainability due diligence e con altre normative collegate alla sostenibilità, anche l’applicazione finale del Regolamento EUDR, contro la deforestazione, si è conclusa con un risultato deludente. Praticamente è uscita la mappatura delle zone del mondo per il rischio deforestazione: sono state inserite nella categoria “High Risk” Bielorussia, Corea del Nord, Myanmar, Russia, una scelta che riflette evidentemente anche ragioni di carattere politico. Paesi come l’Indonesia e il Brasile sono stati invece definiti come “Standard Risk”, nonostante la loro lunga storia documentata di deforestazione. In questa categoria c’è anche una buona parte dell’Africa e tutto il Sud America. Le altre zone invece “Low Risk”.

 

Questa classificazione è importante perché determina l’intensità della due diligence che dovrà essere fatta quando si immettono o si esportano sul mercato dell'UE prodotti derivati ​​da soia, bovini, olio di palma, legno, cacao, caffè e gomma. Sembra che ci sia ancora qualche spiraglio per l’eliminazione della pelle bovina da questo elenco, ma in ogni caso la distribuzione geografica del rischio rende tutto più affrontabile.

 

ZDHC lavora sulle linee guida per la gestione delle risorse idriche nella produzione tessile e conciaria.

 

Nonostante il monitoraggio del consumo idrico stia assumendo un ruolo sempre più importante, la definizione degli obiettivi di riduzione e il monitoraggio sono spesso poco accurati. ZDHC ha iniziato a lavorare per la definizione degli obiettivi di utilizzo dell'acqua per i processi a umido nel settore tessile e conciario, con una apposita commissione. Il gruppo di esperti verificherà e convaliderà i parametri di riferimento e la metodologia di calcolo Care For Water (CFW) di Inditex, che di fatto diventerà la linea guida per tutto il settore.

 

Dopo l'aggiornamento dei requisiti idrici di ZDHC, il piano di implementazione prevede un periodo di transizione di un anno per consentire ai fornitori di monitorare e comunicare i propri obiettivi di utilizzo e riduzione dell'acqua rispetto a questi parametri.

 

E con questo, vi lascio al vostro caffè!

 

Silvia Gambi

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