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Rassegna del 28 Giugno 2018
    

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Quando un guardaroba si può definire sostenibile?


Il mese di giugno è iniziato all’insegna della sostenibilità: il 5 era la Giornata Mondiale dell’Ambiente e l’8 la Giornata Mondiale degli Oceani. E per chiuderlo, venerdì 29 a Milano, è prevista la Run for the Oceans, lanciata da adidas e Parley insieme (più Km di corsa si macineranno nel mondo – e già la corsa è avvenuta a Los Angeles, New Yok,  Londra e Berlino – più alto sarà il ricavato che adidas evolverà al Parley Ocean Plastic Program). Insomma riflettori puntati in quest’inizio d’estate su moda e sostenibilità. E non a caso, allora, proprio adesso Gucci ha lanciato Gucci Equilibrium, una piattaforma online “pensata per riunire le persone, il pianeta e una missione” per dare inizio a un nuovo dialogo sull’impatto dell’industria dell’abbigliamento.

I cinici potrebbero mettere in dubbio iniziative di questo tipo. Ma forse meglio aspettare un attimo ad accigliare la fronte in un’espressione di disapprovazione. Bisogna valutare quanto segue: secondo il rapporto 2015 sulla sostenibilità aziendale mondiale stilato da Nielsen, il 73% dei millennial sarebbe disposto a pagare di più per prodotti sostenibili. C’è quindi un’argomentazione di tipo commerciale che può contribuire a modificare radicalmente le strategie produttive del sistema moda.

Secondo il rapporto Pulse of the Fashion Industry del 2018, sono tanti ormai i brand che sposano iniziative green. Lo studio rivela infatti che nel corso dello scorso anno il 75% delle aziende di moda ha migliorato la propria prestazione ambientale e sociale. Ma alla domanda di prodotti con un minor impatto ambientale fa seguito la richiesta di una maggior trasparenza.
Servono oggi più che mai standard chiari che definiscano il significato di ‘sostenibile’ e di ‘moda consapevole’. Altrimenti si parla solo di greenwashing, che consiste nel fare affermazioni non comprovate circa i benefici ambientali di un prodotto, di una tecnologia o di una pratica commerciale. Per capire meglio cosa si stia facendo per affrontare il problema e soprattutto per aiutarci a capire come possiamo fare a crearci davvero un guardaroba più “etico”, Vogue ha intervistato alcuni esperti in materia impegnati nel ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda.

Cosa stanno facendo le più grandi maison del lusso mondiali per ridurre il loro impatto ambientale?
Marie-Claire Daveu, Responsabile della Sostenibilità del Gruppo Kering, (a cui fanno capo marchi quali Gucci, Saint Laurent, Alexander McQueen e Balenciaga) “Per intenderci, il classico sistema di valutazione per misurare la sostenibilità di un’azienda non può dirsi accurato se non va oltre la natura delle proprie operations. Nel 2011, Kering ha sviluppato uno strumento pioneristico noto con il nome di Profitti e Perdite Ambientali (Environmental Profit & Loss – EP&L) allo scopo di aiutarci a capire meglio il nostro impatto ambientale al fine di ridurlo. Grazie a questo strumento, abbiamo scoperto che solo il 7% degli impatti proveniva direttamente dall’interno dell’azienda (negozi e uffici) ma che uno sconcertante 93% dei problemi era direttamente collegato alla filiera, vedi il cotone e l’allevamento del bestiame, per esempio. Questo significa che se vogliamo davvero migliorare il nostro modello aziendale, dobbiamo andare in profondità, tracciare le materie prime lungo tutta la filiera. Per esempio, molti dei nostri marchi, da Bottega Veneta a Gucci e Saint Laurent, lavorano molto con la pelle, abbiamo quindi sviluppato un processo di concia senza metalli pesanti che è maggiormente rispettosa dell’ambiente, dal momento che riduce l’inquinamento come anche il consumo di acqua ed energia. Se il nostro scopo è proteggere il pianeta ma i nostri sforzi si fermano alle operations, non possiamo dire di fare un buon lavoro. Occorre prendere in esame e apportare cambiamenti lungo tutta la filiera.”

Cosa possiamo quindi fare noi in qualità di consumatori?
Amy Powney, Direttrice Creativa di Mother of Pearl “Vorrei potervi dire che per essere più sostenibili basta acquistare da certi marchi o outlet o smettere una certa pratica ma purtroppo la cosa è molto più complessa. La parola ‘sostenibilità’ è un termine molto ampio e poco chiaro per i consumatori anche perché non esistono standard commerciali ben delineati in materia. Per esempio, il solo fatto che una T-shirt è in cotone biologico non significa che non sia stata prodotta presso stabilimenti dove si sfrutta la manodopera. Altro esempio: potrebbe sembrare una buona idea produrre scarpe da ginnastica da plastica riciclata dal mare ma cosa succede quando quelle scarpe finiscono in una discarica? Da designer, è nostro compito pensare la sostenibilità in maniera olistica, chiedendoci sempre cosa ne è di quel capo una volta che lo abbiamo realizzato e immesso sul mercato. Per quanto riguarda i consumatori, ritengo che l’indicazione più importante che si possa dare per acquistare in maniera più sostenibile sia quella di comprare meno merce a bassa costo e di investire più nella qualità. Occorre tornare a un pensiero che definirei più antico, optando per capi e accessori di cui fare tesoro, da conservare nel proprio guardaroba a lungo e portare più e più volte. Poi, occorre decidere cosa significa sostenibilità per voi: è più importante che si tratti di commercio equo e solidale o la vostra priorità è combattere il cambiamento climatico? Perché è molto improbabile che attualmente riusciate a trovare un marchio che si occupa di affrontare ogni problematica.”

Come possiamo definire davvero cosa significhi ‘sostenibilità’?
Jason Kibbey, AD, Sustainable Apparel Coalition “Nel 2009, Patagonia, il marchio di abbigliamento specializzato in capi per le attività e gli sport all’aria aperta, e il colosso delle vendite al dettaglio americano Walmart si sono uniti spinti dal fatto che ritenevano che gli indici e la trasparenza, nell’industria della moda potessero fare da catalizzatore per migliorarla. Allora le aziende non avevano alcuno strumento per capire l’impatto dei propri prodotti, per non parlare poi del consumatore. Le due aziende hanno quindi scritto una lettera congiunta invitando gli Amministratori Delegati delle maggiori aziende mondiali ad unirsi per sviluppare un indice, attualmente noto con il nome di Higg Index, in grado di misurare l’impatto ambientale dei propri prodotti.  Attualmente,  la Sustainable Apparel Coalition conta più di 200 membri in tutto il mondo, da Adidas ad Asos passando per Levi’s ed LVMH, con un fatturato annuo complessivo proveniente da abbigliamento e scarpe che supera i 500 miliardi di dollari. Il nostro scopo è raccogliere tutti questi dati e standardizzarli, in maniera simile all’industria alimentare. Il passo successivo potrebbe essere condividerli in modo che il consumatore capisca davvero quanto sostenibile sia un capo di abbigliamento. Ovviamente, per fare tutto ciò e farlo bene occorre tempo, ma stiamo collezionando dati preziosi, comparabili e attendibili e che, negli anni a venire, sarete in grado di utilizzare per comparare la sostenibilità di un prodotto, indipendentemente che si tratti di Zara o Chanel. Questo tipo di misurazione standardizzata diventerà di importanza fondamentale per evitare il ‘greenwashing’.”

Qualche consiglio finale su come rendere più sostenibili i nostri guardaroba nel frattempo?
Ryan Gellert, General Manager EMEA, Patagonia “Un giorno Yvon Chouinard [fondatore di Patagonia] disse qualcosa del tipo ‘condurre uno stile di vita rispettoso è una vera scocciatura’. Credo che il concetto racchiuso in un’affermazione del genere è che se si vuole condurre uno stile di vita rispettoso, allora occorre dire ‘Inizierò a fare questa certa cosa adesso, a partire da oggi’ perché non sarà più semplice dopo. Una delle miglior cose che possiamo fare da consumatori è conservare più a lungo i prodotti che acquistiamo: comprare oggetti di qualità, aggiustarli se lo necessitano, non buttarli via. Per quanto riguarda il modo di fare shopping, un consiglio importante che tendo a dare è: fate ricerca, sondate con le vostre domande e chiedete di più dalle aziende da cui acquistate. E siate sospettosi di quelle imprese che comunicano quelle che sono le loro aspirazioni tra 10-15 anni; per quanto mi riguarda, questo è ‘greenwashing’ allo stato puro. È come dire ‘vorrei che ci venisse riconosciuto oggi ciò a cui aspiriamo fare in futuro’. La nostra azienda è stata presa più volte ad esempio di marchio sostenibile. Non siamo un’azienda sostenibile: prendiamo più di quanto il pianeta sia in grado di ripristinare. Siamo, però, un’azienda responsabile per il fatto che cerchiamo di sfidare noi stessi giorno per giorno al fine di minimizzare il nostro impatto sul pianeta e utilizziamo il nostro marchio per ispirare e contribuire ad implementare soluzioni per contrastare la crisi ambientale. (Dalla metà degli anni ’80, Patagonia dona l’1% del proprio fatturato a piccole ma efficaci organizzazioni ambientali). Il nostro settore deve trovare modi per auto-regolarsi non perché sono i consumatori a richiedercelo, non guidati dal timore che siano i governi a regolarci ma semplicemente perché è la cosa giusta da fare.”

Blue Heart, il documentario di Patagonia sulla battaglia per salvare gli ultimi fiumi selvaggi d’Europa, era in programma durante Milano Moda Uomo al White e sarà disponibile su iTunes a partire da agosto. Sul sito di Patagonia dedicato al documentario trovate anche tutte le date e i luoghi della programmazione internazionale del film.

 

Fonte: VOGUE, 21 giugno 2018




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