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Rassegna del 24 Agosto 2017
    

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Separati in azienda


Separati in azienda

Ogni miscelazione di rifiuti deve essere preventivamente autorizzata, questo il principio affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza 12 aprile 2017, n. 75. 

La Corte ha ricordato come l’art. 23 della Direttiva quadro sui rifiuti (n. 2008/98/CE) prescriva che gli Stati membri impongano a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere preliminarmente l’autorizzazione dell’autorità competente. 

Le operazioni di trattamento, argomenta la Corte, in base all’art. 3, numero 14) della Direttiva, comprendono le "operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento" e l’Allegato I della Direttiva prevede al punto D13, il "Blending or mixing prior to submission to any of the operations numbered D1 to D12", tradotto nella versione italiana come "Raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni indicate da D1 a D12" e al punto R12, una voce analoga, alla quale può essere ricondotta la miscelazione dei rifiuti.

Dalle Linee guida sull’interpretazione della Direttiva n. 2008/98/CE, conclude la Corte Costituzionale, risulta, inoltre, che "la miscelazione dei rifiuti è una pratica comune nell’UE ed è riconosciuta come operazione di trattamento dagli Allegati I e II della Direttiva quadro sui rifiuti" (punto 5.1).

Le conseguenze pratiche del divieto assoluto di miscelazione

In termini operativi ciò significa che, anche nel luogo di produzione, deve essere evitata ogni miscelazione di differenti tipologie di rifiuti non pericolosi e qualsiasi commistione fra diversi rifiuti pericolosi pur se con identiche caratteristiche di pericolo. 

La separazione alla fonte dei rifiuti prodotti, oltre che essere vantaggiosa in termini di miglioramento della resa degli impianti di recupero ai quali gli scarti sono conferiti, si rivela dunque una modalità imprescindibile di organizzazione del deposito temporaneo, cioè dell’accumulo di rifiuti nel luogo di produzione. 

In assenza di specifica autorizzazione è quindi necessario adottare ogni cautela volta a garantire costantemente la separazione dei diversi flussi di rifiuti prodotti. Che si tratti di residui generati da lavorazioni industriali o artigianali, oppure di scarti di attività commerciali o di servizio, si dovrà assicurare che le modalità di accumulo dei rifiuti nei locali aziendali sia tale da evitare qualsiasi indebita miscelazione e qualsiasi potenziale diluizione. 

Naturalmente questo non significa che, in caso di produzione di flussi di rifiuti merceologicamente eterogenei fin dalla fase di generazione degli stessi, si debba intervenire per attuare una separazione dei differenti materiali, attività che potrebbe a sua volta configurarsi come operazione di selezione o cernita effettuabile solo a seguito dell’ottenimento di un’autorizzazione, ma piuttosto che i differenti flussi devono essere mantenuti separati tra loro. 

Sicuramente adeguate, quindi, le “isole ecologiche” aziendali con differenti contenitori per le diverse tipologie di rifiuti (distinte per codice CER, stato fisico e eventuali differenti caratteristiche di pericolo e dotate di adeguata segnaletica ed etichettatura dei contenitori) e assolutamente vietata, all’opposto, la prassi di utilizzare un solo “scarrabile” per tutti i rifiuti non pericolosi generati dall’impresa, rifiuti ai quali – del tutto erroneamente – sono attribuiti codici identificativi aspecifici e completamente inadeguati a descrivere la provenienza e le caratteristiche merceologiche dei residui.

L’importanza del divieto di miscelazione

Il divieto di miscelazione è uno dei principi fondamentali che informano la gestione dei rifiuti. In assenza di questo divieto la corretta gestione dei rifiuti classificati come pericolosi sarebbe compromessa, con gravi rischi per l’ambiente e per la salute umana. Per questo motivo la norma quadro sulla gestione dei rifiuti, il decreto legislativo 152 del 2006, dispone che: 

"La declassificazione da rifiuto pericoloso a rifiuto non pericoloso non può essere ottenuta attraverso una diluizione o una miscelazione del rifiuto che comporti una riduzione delle concentrazioni iniziali di sostanze pericolose sotto le soglie che definiscono il carattere pericoloso del rifiuto" [articolo 184, comma 5-ter]. 

Il logico corollario di questa prescrizione è costituito dal divieto di miscelazione di rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi introdotto dall’articolo 187, comma 1, del medesimo decreto legislativo. Tale norma precisa, richiamando implicitamente la disposizione volta ad evitare la declassificazione dei rifiuti pericolosi, che la miscelazione: “comprende la diluizione dei rifiuti”.

Il comma citato vieta anche la miscelazione di rifiuti pericolosi con altri rifiuti pericolosi “aventi differenti caratteristiche di pericolosità”. In questo caso l’individuazione dei comportamenti vietati può essere problematica a causa di inesattezze terminologiche, poiché il concetto indicato nelle norme dell’Unione Europea esclusivamente con la locuzione “Hazardous Property” (in sigla HP e, in precedenza, H) nella normativa sui rifiuti italiana è stato indifferentemente tradotto con i termini: “caratteristiche di pericolo” (D.M. 145/1998), “caratteristiche di pericolosità” (D.Lgs. 152/2006), “classi di pericolo” (D.M. 148/1998), “classi di pericolosità” (D.M. 148/1998) e “proprietà di pericolo” (premessa introdotta dalla Legge 116/2014, e ora abrogata, all’allegato D della quarta parte del D.Lgs. 152/2006). 

Il generale divieto di compiere operazioni di miscelazione dei rifiuti può però essere superato mediante autorizzazione:

 

"In deroga al comma 1, la miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità, tra loro o con altri rifiuti, sostanze o materiali, può essere autorizzata ai sensi degli articoli 208, 209 e 211 a condizione che: 

a) siano rispettate le condizioni di cui all'articolo 177, comma 4, e l'impatto negativo della gestione dei rifiuti sulla salute umana e sull'ambiente non risulti accresciuto;

b) l'operazione di miscelazione sia effettuata da un ente o da un'impresa che ha ottenuto un'autorizzazione ai sensi degli articoli 208, 209 e 211;

c) l'operazione di miscelazione sia conforme alle migliori tecniche disponibili di cui all'articoli 183, comma 1, lettera nn)» [articolo 187, comma 2].

L’articolo 256, comma 5, del D.Lgs. 152/2006 dispone che: «Chiunque, in violazione del divieto di cui all'articolo 187, effettua attività non consentite di miscelazione di rifiuti, è punito con la pena di cui al comma 1, lettera b)" [arresto da sei mesi a due anni e ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro].

La precedente interpretazione del divieto

La lettera della norma conduceva a ritenere che le operazioni di miscelazione vietate ma effettuabili a seguito di autorizzazione fossero quelle relative alla:

-       miscelazione di rifiuti pericolosi con altri rifiuti pericolosi con differente caratteristica di pericolosità;

-       “miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità […] con altri rifiuti, sostanze o materiali”.

La dottrina aveva però ritenuto che l’imprecisa formulazione della disposizione dovesse essere intesa come un divieto di miscelazione dei rifiuti pericolosi, indipendentemente dalla specifica “caratteristica di pericolosità” di ognuno di essi, con rifiuti non pericolosi, divieto derogabile esclusivamente a seguito dell’ottenimento di un’autorizzazione.

In seguito, l'art. 49, comma 1, della legge 28 dicembre 2015, n. 221 ha introdotto il comma 3-bis all’art. 187: "Le miscelazioni non vietate in base al presente articolo non sono sottoposte ad autorizzazione e, anche se effettuate da enti o imprese autorizzati ai sensi degli articoli 208, 209 e 211, non possono essere sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle previste per legge".

Disposizione della quale, come anticipato, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale con sentenza n. 75/2017. Secondo la Corte: "In base alla direttiva n. 2008/98/CE, dunque, esistono miscelazioni vietate (art. 18, paragrafo 1), ma autorizzabili in deroga (art. 18, paragrafo 2), e miscelazioni non vietate (non in deroga), ma comunque soggette ad autorizzazione in quanto rientranti tra le operazioni di trattamento dei rifiuti (art. 23). […] Prima dell’entrata in vigore della disposizione impugnata, il diritto interno era conforme alla normativa europea (si vedano gli artt. 187 e 208 del d.lgs. n. 152 del 2006). L’art. 49 della legge n. 221 del 2015, invece, liberalizzando le miscelazioni non vietate dall’art. 187, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, cioè sottraendo ad autorizzazione la miscelazione di rifiuti pericolosi aventi le stesse caratteristiche di pericolosità (elencate nell’Allegato I alla Parte IV del codice dell’ambiente) e quella fra rifiuti non pericolosi, si pone in contrasto con l’art. 23, paragrafo 1, della direttiva"

Nessun tipo di operazione di miscelazione, pertanto, può essere lecitamente svolta in assenza di autorizzazione, anche se la dottrina dovrà chiarire il senso dell’affermazione secondo la quale le miscelazioni non vietate sono comunque soggette ad autorizzazione, dato che, in termini generali, le autorizzazioni hanno la specifica funzione di rimuovere un generale divieto di effettuare una determinata attività.

 

di Paolo Pipere, esperto di Diritto dell’Ambiente e consulente giuridico ambientale

 

 




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