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ISSUE 386

Greenpeace traccia i resi online: gli abiti percorrono fino a 10mila chilometri

repubblica.it

Greenpeace traccia i resi online: gli abiti percorrono fino a 10mila chilometri

Una inchiesta di Greenpeace sulle principali aziende mette in luce - grazie all'uso di localizzatori per controllare gli spostamenti dei prodotti rispediti - quanto può impattare un singolo capo, capace di viaggiare anche per 10mila chilometri.

 

 

Vestiti e scarpe comprati online a basso costo e poi restituiti quando non vanno bene grazie a pochi clic: per il nostro portafoglio pesano poco, ma  il prezzo ambientale da pagare per quei resi capaci di affrontare viaggi anche di 10mila chilometri è altissimo. Una ricerca del 2020 pubblicata su Nature ricordava il crescente impatto ecologico del fast fashion: quasi il 18% delle emissioni globali di anidride carbonica prodotte dall'industria manifatturiera, milioni di litri di acqua utilizzata per lavorare cotone e tessuti e almeno 100 milioni di rifiuti tessili gettati via ogni anno. Cifre in costante evoluzione alle quali negli ultimi anni, come impatto sull'ambiente, si è aggiunto un altro serio problema: la facilità dei resi e l'impronta che le restituzioni hanno sul nostro Pianeta.

 

Per questo Greenpeace Italia, in collaborazione con Report, ha tentato attraverso un'indagine di comprendere meglio cosa accade quando si restituiscono gli abiti e che impatto possono avere quei pacchi che, una volta rispediti indietro, viaggiano anche per migliaia di chilometri tra l'Europa e la Cina.

 

I resi "tracciati" grazie a un localizzatore nascosto

 

Per due mesi, concentrandosi sul settore fast-fashion, Greenpeace ha fatto così un esperimento: ha acquistato 24 capi tra Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos e una volta arrivati i vestiti comprati online li ha rispediti indietro, ma prima ha inserito un localizzatore Gps all'interno di ogni capo, in modo da tracciarne lo spostamento e comprendere il mezzo usato dalla filiera logistica dei venditori.

 

Le mappe mostrano gli incredibili percorsi che a seconda delle aziende finiscono per fare pantaloni, maglie, parka o scarpe che rispediamo al mittente: prima transitano più volte lungo tutto l'asse della nostra penisola, poi talvolta finiscono in Spagna, in altri Paesi europei, e in più casi attraversano i cotinenti spesso diretti in Cina. In meno di due mesi i pacchi rispediti hanno percorso in totale 100mila chilometri attraversando 13 Paesi europei e la Cina. In media ogni pacco ha viaggiato, per consegna e reso, quasi 4500 chilometri: il tragitto più breve è stato di 1.147 chilometri, il più lungo di circa 10.300.

 

In ogni vestito restituito l'utilizzo di localizzatori (tracker) Bluetooth, degli smart tag "appositamente modificati per ridurne la dimensione e inibirne la possibilità di emettere segnali sonori" ha permesso di comprendere sia il mezzo usato per il trasporto, soprattutto camion e aerei e poi furgoni e navi, sia quante volte i capi sono stati poi rivenduti.

 

"I 24 capi di abbigliamento - spiega Greenpeace - sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, con una media di 1,7 vendite per abito, e resi per ben 29 volte. A oggi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti".

 

Nel dettaglio delle aziende, l'associazione ambientalista precisa che "tutti i capi di abbigliamento di Temu sono stati spediti dalla Cina, hanno percorso oltre 10 mila chilometri (principalmente in aereo) e, a oggi, nessuno risulta rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso. Due capi di abbigliamento di Asos hanno viaggiato, in media, per oltre 9 mila chilometri transitando per ben 10 Paesi europei. Asos, Zalando, H&M e Amazon sono in cima alla classifica per numero medio di rivendite: 2,25 volte. Mentre il 100% dei capi resi a Temu, Ovs e Shein non è ancora stato rivenduto".

 

In generale ci sono addirittura sette capi che in totale hanno volato complessivamente per oltre 34mila chilometri.

 

"Aumento di circa il 24% delle emissioni per pacco"

 

Un insieme di dati, quelli raccolti da Greenpeace facendo partire i resi dall'Europa, dove ogni anno vengono buttati via circa 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili, ossia circa 12 kg a persona, che grazie all'aiuto della startup INDACO2 è stato poi tradotto nel possibile impatto ambientale a livello di emissioni di questi viaggi.

 

Tra spostamenti e packaging secondo l'indagine l'impatto ambientale medio del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a 2,78 kg di CO2 equivalente, emissioni su cui il packaging incide per circa il 16%. In media, per il confezionamento di ogni pacco sono stati usati 74 grammi di plastica e 221 grammi di cartone.

 

Se prendiamo come esempio un paio di jeans, che in media pesano 640 grammi, il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di CO2 e il costo medio del carburante per il trasporto è stimato in 0,87 euro.

 

Nel mondo in costante crescita dell'ultra fast fashion è dunque facile immaginare - se in media un vestito ordinato e poi reso comporta un +24% di emissioni di CO2 - quanto possa impattare a livello generale per il Pianeta il costante e continuo via vai di queste merci.

 

"La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti. - spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia - Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d'abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l'acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il Pianeta".

 

Secondo le attuali stime a livello globale la produzione e il consumo di prodotti tessili sono raddoppiati dal 2000 al 2015 e potrebbero triplicare entro il 2030.

 

Ma con il fast fashion, che assicura una crescita del mercato della moda, "solo il 3% della moda è però circolare e appena l'1% dei nuovi vestiti viene prodotto a partire da abiti vecchi, mentre ogni secondo un camion pieno di indumenti finisce in discarica o inceneritore" chiosa Greenpeace ricordando l'importanza di porre un freno alle emissioni di questo settore "che è uno dei più inquinanti, un sistema vorace che utilizza enormi quantità di materie prime: soltanto nell'Unione Europea il consumo di prodotti tessili risulta il quarto settore per impatti su ambiente e clima, il terzo per consumo d'acqua e di suolo".

 

Giacomo Talignani

 

 

Photo: Claudio Schwarz

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