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ISSUE 431

RREUSE, il ruolo centrale delle imprese sociali nella transizione ecologica

economiacircolare.com

RREUSE, il ruolo centrale delle imprese sociali nella transizione ecologica

La conferenza di RREUSE, a Napoli, ha approfondito come le politiche circolari e sociali si sviluppano nelle diverse realtà locali e puntato i riflettori sull'economia solidale e sul settore circolare in Europa e in Italia, per riflettere su come creare una “bussola comune” ancorata a valori condivisi ma allo stesso tempo sensibile ai diversi contesti nazionali.

 

Di fronte a una transizione ecologica che sembra destinata per ragioni politiche a rallentare in Europa e negli Stati Uniti, le imprese sociali diventano uno strumento ancora più decisivo per diffondere un nuovo modello fondato sull’economia circolare davvero inclusivo, lottando contro disuguaglianze ed esclusione sociale. La conferenza europea di RREUSE, che quest’anno si è tenuta a Napoli, ha voluto mettere al centro questi attori essenziali – le imprese sociali – nell’accompagnare la transizione ecologica “giusta”, senza lasciare indietro nessuno, ma anzi valorizzando il contributo anche delle persone più svantaggiate.

 

All’evento, organizzato insieme al partner italiano Rete 14 Luglio, hanno partecipato rappresentanti dell’economia sociale e circolare da tutta Europa, esperti, mondo accademico e amministrazioni locali per approfondire come le politiche circolari e sociali si sviluppano nelle diverse realtà locali. Si è parlato, però, anche di quali sono le barriere alla trasformazione: la precarietà delle politiche pubbliche, l’urgenza di nuovi modelli di governance territoriale, le difficoltà del sistema di gestione dei rifiuti e l’insufficienza dello strumento del riciclo.

 

Fondata a Bruxelles nel 2001, RREUSE riunisce oltre 1200 imprese sociali, impegnate nella gestione di beni usati e materiali di scarto con finalità sia ambientali che occupazionali. Le imprese aderenti operano in centri di riuso, cooperative di riparazione e piattaforme di redistribuzione solidale. Tra queste, in Italia, Rete 14 Luglio, un coordinamento di imprese sociali e cooperative impegnate nel riuso, nell’inclusione lavorativa, nella solidarietà e nella gestione comunitaria e mutuale dei beni.

 

Sono stati proprio la direttrice di RREUSE, Neva Nahtigal, e Giorgio Rosso, coordinatore di Rete 14 Luglio, a moderare le tavole rotonde della conferenza che hanno spaziato dalle grandi questioni aperte dalla transizione ecologica – dove ci sta portando e come le imprese sociali la stanno vivendo – alla definizione dei valori e dei criteri necessari per orientarsi in un panorama politico ed economico sempre più instabile. Fino ad arrivare all’analisi delle differenze tra i contesti nazionali e il livello europeo, per capire come agire in modo efficace in un’Unione Europea dove condizioni, normative e ostacoli cambiano da nazione a nazione.

 

In che direzione sta andando la transizione ecologica?

 

I numeri dimostrano questa necessità. Da un lato, come ha fatto notare Frank Dingemans, Partnerships & Innovation Advisor di RREUSE, c’è un’assoluta urgenza di andare verso la transizione ecologica e abbracciare l’economia circolare. “I limiti planetari sono stati superati e il circularity gap resta fermo al 7,2%. Nonostante parliamo di economia circolare, stiamo continuando a crescere nella direzione sbagliata, mente il Pil globale mostra una tendenza verso modelli di gestione più centrati sul welfare assistenziale che sul benessere, in un approccio che allontana ulteriormente l’obiettivo di trasformare davvero l’economia”.

 

Dall’altro “le preoccupazioni legate alle necessità economiche degli ultimi anni hanno reso la transizione e gli impegni ambientali dichiarati dall’Unione Europea obiettivi difficili da raggiungere”, ha fatto notare Giulia Galera, ricercatrice di EURICSE (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) & WISESHIFT. 

 

A cui si aggiunge l’effetto frenante dell’attuale fase di incertezza normativa di Bruxelles, ha fatto notare Gianni Squitieri, coordinatore della Fondazione Sviluppo Sostenibile. “La tendenza a dividere il sistema produttivo tra piccole, medie e grandi aziende – come se non fossero tutte interconnesse e vincolate agli stessi obblighi regolatori – ha di fatto rallentato l’azione verso la sostenibilità delle imprese e dunque la transizione ecologica” ha ricordato Squitieri. Eppure “la sostenibilità – ha sottolineato – è un beneficio per tutti: un’occasione concreta per migliorare l’occupazione e rafforzare il sistema economico nel suo complesso. Il paragone è con settore delle energie rinnovabili: non arretrano, nemmeno in un contesto politico che sembra voler rallentare la transizione. La ragione è semplice: le fonti rinnovabili hanno un vantaggio intrinseco, una convenienza economica strutturale rispetto alle fonti fossili, che le rende comunque competitive”.

 

La stessa Unione Europea, perciò, nonostante le difficoltà, non deve distogliere lo sguardo da qual è l’obiettivo, secondo Giulia Galera: “Le transizioni devono essere rivolte alla società, alle comunità e dunque devono essere un modello di sostenibilità inclusiva”. In particolare, secondo Galera, servono “politiche che non abbiano come obiettivo la massimizzazione del profitto, perché solo così possono valorizzare davvero le comunità e le persone più fragili, e garantire che le innovazioni tecnologiche siano realmente al servizio della collettività. Politiche che assicurino l’accesso a servizi essenziali come l’assistenza sanitaria, l’inclusione delle persone con disabilità, una transizione energetica che coinvolga attivamente i territori, e più in generale una transizione ecologica equa”.

 

In un’Europa attraversata da guerre, crisi economiche, polarizzazione politica, fake news e strategie di disinformazione sulle tematiche ecologiche, la necessità che accompagna la transizione verde non riguarda più soltanto la sostenibilità, ma la tenuta democratica delle società, ha fatto notare Sarah de Heusch, direttrice di Social Economy Europe. Le imprese sociali, infatti, “sono le realtà che grazie alle loro governance aperte e ai loro modelli inclusivi meglio difendono la dignità umana, l’uguaglianza, la partecipazione e i valori dell’Unione Europea come richiami all’articolo 2 del Trattato UE”, ha spiegato.

 

Le imprese sociali in Italia: riconoscerne specificità e autonomia

 

Il rischio, però, è che nelle attuali condizioni non riescano ad esprimere al meglio le loro potenzialità. “Le WISE (Work Integration Social Enterprises, ndr) sono riconosciute in Italia dalla legge dal 1991, ma senza una piena legittimazione della loro funzione sociale. A differenza di nazioni come Francia e Spagna, dove sono strumenti centrali delle politiche attive del lavoro, o come l’Olanda, dove pur senza un quadro normativo godono di forte sostegno, nel nostro Paese sono costrette a sopravvivere”, ha spiegato Galera.

 

“Ad esempio, le WISE sono spesso obbligate a trattenere le persone fragili anche quando queste potrebbero inserirsi nel mercato del lavoro ordinario e lasciare spazio ad altre persone fragili. È un modello di integrazione permanente, non per scelta, ma per esigenza: se le imprese sociali ‘liberassero’ questi lavoratori, rischierebbero di perdere personale essenziale per garantire la continuità delle attività e, di conseguenza, la propria tenuta economica. E i numeri stagnanti dell’occupazione nelle imprese sociali a partire dagli anni Novanta lo dimostrano”.

 

Invece, “per valorizzare davvero le potenzialità delle WISE – ha sottolineato Galera – è fondamentale riconoscerne la specificità e l’autonomia. Sono proprio queste organizzazioni, con la loro presenza radicata nei territori, a garantire la prossimità e il contatto diretto con le persone fragili. Non si tratta di imitare la governance delle aziende tradizionali, orientata esclusivamente all’efficienza economica, ma di costruire un modello che unisca sostenibilità sociale e capacità operativa”, ha concluso.

 

Tuttavia, come ha ricordato Renato Passaro, professore dell’Università degli Studi di Napoli Parthenope, “l’economia circolare non è automaticamente un modello giusto: occorre renderlo tale in termini di equità e giustizia sociale. Per questo deve essere strettamente connessa al ruolo delle imprese sociali e non a quello delle aziende tradizionali”. Secondo Passaro, infatti, “i meccanismi del libero mercato non sono compatibili con quelli della circolarità, se non vengono introdotti adeguati correttivi”.

 

Imprese sociali: tra collaborazione e innovazione

 

Invece, il costante ricorso nella terminologia della Commissione UE alla semplificazione e alla competitività indica il nuovo corso di Bruxelles orientato al libero mercato. “Le imprese sociali sono in un certo senso una forza di mercato, ma non sono competitive perché sono una forza ‘buona’: lavoriamo con le persone che il modello di sviluppo dominante tende a lasciare ai margini”, ha precisato Dingemans di RREUSE. “Le politiche dell’Unione Europea non devono, perciò, metterci in competizione con gli attori liberali, come il settore finanziario o gli altri grandi operatori economici, ma piuttosto favorire un confronto in cui siano loro a misurarsi con noi”.

 

“Collaborazione” è stata una parola al centro anche dell’intervento di Marco Gargiulo, presidente di Idee in Rete: “Le imprese tradizionali guardano sempre con maggiore interesse alle imprese sociali come potenziali partner in vari progetti”. Le imprese sociali, infatti, hanno un know how particolare: “La capacità di creare connessioni reali tra persone e organizzazioni, di mettere insieme unità sociali diverse e costruire ambienti di lavoro inclusivi che possano coinvolgere centinaia di persone fragili. Quando riusciamo a mettere insieme queste esperienze – ha proseguito Gargiulo – a valorizzare le competenze e le capacità delle diverse organizzazioni, creiamo un effetto moltiplicatore: rafforziamo la resilienza, favoriamo l’innovazione e sosteniamo lo sviluppo dell’economia locale, permettendo a comunità e territori di crescere in modo sostenibile e integrato”.

 

Un know how di cui possono beneficiare, dunque, anche le imprese private. Le start-up circolari, ad esempio, sono strutturalmente più portate al cambiamento e all’innovazione: “Sono molto più veloci ad adottare modelli circolari. Non devono trasformare strutture esistenti: costruiscono direttamente nuovi modelli. È lì che vediamo il cambiamento più coraggioso”, ha commentato Renato Passaro. Al tempo stesso, le imprese sociali possono attingere dalle aziende private la cultura dell’innovazione: “Questo ci aiuta a professionalizzare il settore, a sperimentare più velocemente e a dimostrare alla società che l’economia sociale può essere competitiva e dialogare alla pari con l’economia tradizionale”, ha concluso Gargiulo.

 

Differenze europee, limiti nel Sud Italia e sfide comuni

 

Certo, la situazione non è uguale ovunque, come era stato già sottolineato dal punto di vista normativo. Antigone Dalamaga, presidente onoraria di RREUSE, ha evidenziato le profonde differenze tra i Paesi europei, tanto sul piano sociale quanto su quello ambientale. Come ha spiegato alla platea, “ci sono nazioni in cui le imprese sociali sono radicate e hanno un sostegno legislativo, una definizione chiara, da decenni”. Ma ce ne sono altre, ha aggiunto, “in cui l’economia sociale fa parte della cultura, ma non ha alcuna base legale”, costringendo ogni organizzazione “ad adattarsi in modo diverso, a seconda del contesto, della cultura, delle condizioni sociali ed economiche e della struttura demografica, che va verso una popolazione sempre più anziana”. Il risultato è una rete europea segnata da grandi divari.

 

In Italia, ha fatto l’esempio Antonella Piccolella, della Fondazione con il Sud, le imprese sociali del Mezzogiorno non partono dalle stesse condizioni del Centro-Nord: “Minori risorse, minore accesso ai finanziamenti e una diffidenza culturale verso la sharing economy che vede ancora nel possesso un simbolo di status”. Eppure proprio qui le WISE potrebbero affrontare problemi strutturali: “La sottoccupazione cronica, l’integrazione dei migranti, la fragilità delle comunità rurali”. Anche nel campo del riuso emerge una difficoltà operativa: i principi sono dichiarati, ma l’applicazione è ancora scarsa. Le infrastrutture non tengono il ritmo, i prodotti continuano a percorrere lunghi tragitti per essere trattati, e la seconda fase della circolarità, quella che valorizza riparazione, rigenerazione e riutilizzo, fatica a decollare”.

 

La fase successiva: dal riciclo al riuso e riutilizzo

 

Eppure, il passaggio richiesto alle imprese sociali e più in generale a chi lavora nella sostenibilità e nell’economia circolare è proprio questo, come ha spiegato Squitieri di Fondazione Sviluppo Sostenibile. “Il sistema del riciclo in Italia, nonostante alcuni limiti, ha avuto effetti ambientali e sociali positivi. Ma non è sufficiente perché non sta risolvendo il problema della produzione di rifiuti. La seconda fase è l’ecoprogettazione, il riuso, il riutilizzo, principi che vengono sempre nominati ma raramente attuati. Finora – ha concluso il coordinatore di Fondazione Sviluppo Sostenibile – ha prevalso l’aspetto industriale del riciclo. In questa nuova fase, invece dovranno essere le imprese sociali a dare il loro apporto, perché sono più strutturate per integrarsi col modello del riuso e del riutilizzo”.

 

Il ruolo “storico” del riutilizzo e della riparazione è stato ricordato dall’intervento di Eve Poulteau, amministratrice delegata di Emmaus Europe: “Siamo nati nel dopoguerra (l’associazione Emmaus Europe ndr). Raccoglievamo i rifiuti, li riparavamo, e lo facevamo per un motivo semplice: mettere un tetto sulla testa di chi era finito in miseria. Per offrire riparo, cibo, una nuova possibilità. La comunità del riuso è stata prima di tutto uno strumento di solidarietà. Serviva per aiutare le persone, per permettere loro di riconquistare autonomia e prendere decisioni sulla propria vita”.

 

Una missione che oggi diventa ancora più importante, soprattutto mentre i bilanci per le politiche sociali vengono tagliati: “La solidarietà per noi è un modo per generare reddito e garantire la sopravvivenza economica delle organizzazioni. Senza questo, non potremmo sostenere chi è distante dal mercato del lavoro, chi vive momenti difficili o situazioni di forte esclusione. Attraverso il lavoro e le iniziative solidali, aiutiamo le persone a ricominciare: a socializzare, imparare, recuperare fiducia. È un beneficio umano enorme”. Ed è proprio su questo che Poulteau ha insistito, rivolgendo un appello a Bruxelles: “Siamo in una fase in cui questi valori devono restare centrali. L’impegno sociale è essenziale e deve essere riconosciuto nelle politiche europee”.

 

Tiziano Rugi

 

Photo: Rreuse

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