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valori.it
Bisogna fare la transizione ecologica, lo sappiamo. E bisogna che sia giusta. Sappiamo anche questo. Non facciamo che ripeterlo. Lo urla chi è nelle piazze. Lo scrive chi fa informazione sul tema. Lo evidenzia chi difende i diritti di lavoratrici e lavoratori. Lo promette chi chiede un voto. Lo dicono addirittura le aziende. Chissà cosa significa, poi, fare una transizione giusta. Il fatto è che ciascuno la pensa a modo suo. C’è anche chi non ne pensa niente di definito ma ha imparato che, se usa la formula magica, piacerà di più a chi protesta, a chi lavora, a chi vota, a chi investe in un’azienda.
Qual è la definizione ufficiale di transizione giusta
A esplorare il quadro ci ha pensato il think tank InfluenceMap che ha analizzato una serie di comunicazioni aziendali che fanno riferimento alla giusta transizione per capire come viene utilizzata quest’espressione. La prima evidenza, neanche a dirlo, è che spesso è usata in maniera disallineata rispetto alle definizioni stabilite a livello internazionale dall’Ipcc (Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici) o dall’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro). E se non lo sanno loro cosa sia la giusta transizione, davvero c’è da chiedersi chi ne sappia qualcosa.
La transizione giusta, secondo le loro definizioni, è quella che garantisce il futuro e i mezzi di sussistenza di chi lavora e delle comunità. Che offre lavoro dignitoso, protezione sociale, opportunità di formazione e sicurezza del posto di lavoro. Quella basata sui diritti fondamentali del lavoro e sul dialogo sociale. Il suo obiettivo non è tutelare le finanze di un’azienda o gli interessi di chi ci investe. È invece prevenire shock economici e assicurare che la trasformazione avvenga senza che ne paghi il prezzo chi è più debole. È difficile immaginare un altro significato dell’aggettivo “giusta”.
Le aziende fossili che snaturano il concetto per tutelare il proprio business
C’è però chi ci è riuscito. Secondo l’analisi di InfluenceMap, quasi il 70% delle comunicazioni analizzate si è limitato semplicemente a menzionare la formula (name dropping, 29%) o a farvi un riferimento generico (broad reference, 40%). Questo eccessivo affidamento a un linguaggio di alto livello, soprattutto da parte del settore energetico, rischia di minare la comprensione del concetto stesso. Solo il 20% delle comunicazioni, infatti, associa all’utilizzo dei termini transizione giusta un impegno dettagliato sulle misure necessarie, riconoscendo al tempo stesso l’urgenza di allontanarsi dai combustibili fossili in linea con le tempistiche dell’Ipcc e di garantire adeguate protezioni sociali per lavoratori e comunità vulnerabili.
Al contrario, l’11% delle comunicazioni analizzate utilizza la formula per giustificare l’uso di combustibili fossili. A farlo sono soprattutto le società del settore delle energie fossili che, anzi, utilizzano quei termini come espedienti di greenwashing. Un esempio lampante di questa strategia è l’International Gas Union (Igu). Nel settembre 2021 quest’ultima ha affermato che «il gas naturale è e continuerà a essere il catalizzatore e il fondamento di un sistema energetico globale più sostenibile, alimentando una transizione giusta».
Così la transizione giusta non la faremo mai
La preoccupazione di ricercatrici e ricercatori di InfluenceMap è che questo utilizzo vago – quando non distorto – della formula contribuisca a diluirne il significato in una fase in cui, invece, è cruciale che sia molto chiaro. Le aziende dovrebbero invece mappare i propri impatti, coinvolgere chi lavora nel dialogo sui piani di riduzione delle emissioni e collaborare con governi e sindacati per integrare i piani di transizione nelle funzioni aziendali. La difesa degli interessi delle collettività, anziché delle ricchezze dei singoli, rimane il presupposto fondamentale per costruire una transizione che possa definirsi giusta. Tutto il resto ci fa soltanto perdere altro tempo, e di tempo ce ne resta davvero poco.
Rita Cantalino
Photo: valori.it
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Rassegna del 29 Dicembre, 2025 |
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