La Newsletter di ESO
ISSUE 377

Big Food, le emissioni di CO2 aumentano anziché diminuire

Le grandi multinazionali del cibo promettono obiettivi climatici ambiziosi. Ma leggendo i loro report, la realtà appare molto diversa

valori.it

Big Food, le emissioni di CO2 aumentano anziché diminuire

Cinque anni fa, McDonald’s fece un doppio annuncio: il suo impegno climatico si sarebbe tradotto in una riduzione di un terzo delle sue emissioni entro il 2030 e il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050. Ma leggendo l’ultimo “impact report” del colosso del fast food emerge un quadro diverso: come riporta il New York Times, infatti, le emissioni di McDonald’s vanno nella direzione opposta. Nel 2021 erano addirittura cresciute del 12% rispetto al 2015.

 

Purtroppo la celebre catena di ristoranti americana non è l’unica società del settore alimentare in questa situazione. Lo stesso New York Times rivela che, delle 20 tra le maggiori società di ristorazione al mondo esaminate, più della metà non ha compiuto alcun progresso in termini di riduzione delle emissioni. Anzi.

 

Un tema che sta particolarmente a cuore alla redazione di Valori.it, che da questa settimana inaugura una nuova newsletter: si chiama Valori in tavola e uscirà a cadenza settimanale, ogni giovedì. Valori in tavola è un progetto promosso da Valori.it, Circolo della ciambella e Slow food Modena nell’ambito di FestiValori.

 

Colpa della supply chain ma non solo

 

Ma torniamo all’indagine del NYT e in particolare a McDonald’s. Il 90% dell’aumento delle emissioni riguarda la catena di approvvigionamento, meglio conosciuta con il suo nome in inglese, la supply chain. Che, nel caso di McDonald’s, significa i cereali usati per nutrire gli animali da cui deriva la carne, in particolare i bovini.

 

Anche PepsiCo ha fatto segnare un +7% di emissioni rispetto al 2015 (un dato che emerge leggendo il suo report di sostenibilità), così come anche Chipotle, famoso per il cibo messicano, che si era posta l’obiettivo di dimezzare le proprie emissioni entro il 2030, e invece ha registrato un aumento del 26% nella catena di approvvigionamento. 

 

Pandemia, eventi climatici estremi, la guerra in Ucraina con la relativa crisi energetica: sono tutti fattori che hanno letteralmente fatto a pezzi la catena di fornitura. Così, per mantenere i robusti ricavi a cui le multinazionali sono abituate, si è scelto di rivolgersi a nuovi fornitori. Interrompendo spesso avanzamenti ed equilibri – anche ambientali – raggiunti in precedenza.

 

Ma non è tutta colpa di fattori esterni, ci mancherebbe. Prendiamo Starbucks: nel 2022, il brand di caffè e cappuccini ha registrato un aumento delle emissioni del 12% rispetto ai livelli del 2019. Nello stesso periodo, i ricavi sono aumentati del 23% (circa 6 miliardi di dollari). Starbucks ha insomma aggiunto più di cinquemila nuovi negozi e ben rappresenta il difficile rapporto tra sostenibilità e un tasso di crescita sfrenato.

 

Calcolare le proprie emissioni non è una procedura standardizzata

 

Il settore alimentare globale rappresenta un terzo delle emissioni di CO2 che disperdiamo nell’atmosfera terrestre, secondo i dati delle Nazioni Unite. Di queste, molte provengono dagli allevamenti intensivi. JBS, che sul suo sito si vanta di essere la più grande azienda di trasformazione “di proteine animali” a livello mondiale con un obiettivo di neutralità climatica al 2040, non tiene conto delle emissioni prodotte dagli allevamenti. Ciò significa che una buona fetta di industrie alimentari, tra le quali figura una delle maggiori in termini di volumi di carne lavorata, non dichiara tutte le proprie emissioni. 

 

Calcolare le emissioni, purtroppo, non è una procedura standardizzata ma piuttosto una discrezionale. Lasciata nelle mani dei grandi gruppi societari, che spesso indirizzano i calcoli verso ciò che serve comunicare. Alcune aziende pagano gruppi esterni, come la Science-Based Targets Initiative, per fissare e approvare obiettivi a medio e lungo termine di riduzione delle emissioni e ne danno notizia attraverso i loro comunicati stampa. Non è il caso di JBS, che continua a lanciare messaggi pubblicitari, del tipo «bacon, chicken wings and steak with net zero emissions. It’s possible» («bacon, ali di pollo e bistecche ad emissioni zero. È possibile»), senza nemmeno dichiarare il numero di animali lavorati.

 

Non è un caso se il National Advertising Review Board (NARB), ente americano che si occupa di regolare le pubblicità dell’industria, ha sentenziato contro JBS, intimando all’azienda di interrompere le affermazioni relative al suo obiettivo di raggiungere il traguardo delle emissioni zero entro il 2040. Il NARB non lo chiama così, ma ciò che fa JBS non sembra altro che greenwashing. Ecco perché, invece di celebrare le società per le loro promesse, andrebbero valutate in base alle loro effettive prestazioni.

 

Maurizio Bongioanni

 

 

Photo: amirali mirhashemian

 

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