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ISSUE
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lifegate.it
Il concetto di moda circolare può non essere immediato da afferrare, ma partiamo da un riferimento visivo: un cerchio in contrapposizione a una linea retta. La circolarità è un sistema che opera in un ciclo chiuso, in contrapposizione a un sistema unidirezionale, o lineare. In quest’ultimo, quello a cui siamo più abituati, prendiamo le risorse della terra, le trasformiamo in prodotti, li usiamo e poi li buttiamo via. Questo tipo di approccio tratta le risorse come infinite, una volta che queste vengono dismesse o scartate, il loro valore è perso. L’economia circolare, e la moda non fa differenza, prevede che, invece di buttare via qualcosa quando abbiamo finito di usarlo, lo si reimmetta nel sistema, intero o in modo tale che i materiali che lo compongono vengano riutilizzati in qualche modo. Un sistema di questo tipo è rigenerativo e riparativo: applicando i principi dei sistemi circolari in tutti i settori industriali si potrebbe non solo inquinare meno, ma anche produrre valore. Ma cosa significa tutto questo per l’industria della moda?
Moda circolare, how to
Con oltre 100 miliardi di capi di abbigliamento prodotti ogni anno e un consumo destinato ad aumentare del 63 per cento entro il 2030, mantenere il ritmo di crescita attuale porterebbe a triplicare l’attuale consumo delle risorse, già sovrautilizzate del pianeta: basti ricordare che l’Overshoot day, ovvero il giorno in cui abbiamo esaurito le risorse per l’anno in corso, per l’Italia è stato il 15 maggio e per il mondo il 2 agosto 2023. Tornando alla moda, solo il 13 per cento dei prodotti tessili viene riciclato una volta che gli indumenti vengono dismessi. La maggior parte di questi viene immessa nel mercato dell’usato, ma solo meno dell’un per cento viene riciclato in nuovi capi di abbigliamento, il che rappresenta una perdita di oltre 100 miliardi di dollari di materiali ogni anno.
Ad oggi sono sostanzialmente due i modi di affrontare la circolarità: da un lato mantenere gli abiti e i prodotti tessili in uso il più a lungo possibile, dall’altro riciclando gli abiti per ricavarne nuove fibre. Della prima opzione fanno parte le attività che puntano ad allungare la vita dei prodotti così come sono, quindi vendita o riparazioni, oppure quelle che a partire da prodotti già esistenti creano qualcosa che prima non c’era, ovvero l’upcycling. Nella seconda bisogna invece annoverare tutti quei processi che sono in grado di ricavare nuove fibre da quelle preesistenti attraverso processi di riciclo.
Repair, resell e upcycling
Per far sì che un processo sia veramente circolare è importante che i capi passino di mano in mano senza che ci sia ulteriore spreco di risorse, o che questo sia minimo, come ad esempio quello legato alle spedizioni nel resell. La riparazione dei capi è certamente uno dei metodi più green che si possano immaginare per allungare la vita dei prodotti, ma non sempre è così semplice. Ovviamente c’è la manutenzione degli abiti che tutti possiamo adottare, avendone cura nei lavaggi domestici e intervenendo sui prodotti quando questi sono usurati e rotti, ma spesso e volentieri le riparazioni necessarie esulano da quello che si è in grado di fare da soli. È in questo contesto che si inseriscono le iniziative di numerosi brand legate alla riparazione, soprattutto nel settore dell’outdoor, mondo in cui la performance dei prodotti è direttamente legata al loro stato di salute e settore in cui i brand si sono dati da fare già in epoche passate. The North Face ha un dipartimento appositamente dedicato alle riparazioni fin dal 1971 e recentemente ha lanciato il TNF Renewed program, un’iniziativa che consiste nel rimettere a nuovo i capi dei consumatori che ottengono uno sconto riportando quello che non utilizzano più. Patagonia ha portato le riparazioni in giro per il mondo con il Worn Wear Tour, andando nelle località di montagna e offrendo riparazioni per i capi outdoor mentre dallo scorso novembre il brand californiano ha inaugurato delle repair station fisse nei propri store.
Uno dei riflessi della società consumistica nella quale siamo immersi è che inevitabilmente finiamo per comprare più di quanto ci serva: capita con tutto e capita anche con gli abiti che, spesso, finiscono per essere indossati molto poco. In questo scenario si inserisce l’importanza di una pratica come quella del resell, ovvero la rivendita dei capi che non si indossano più. Una pratica che oggi è esponenzialmente più facile rispetto al passato e, soprattutto, molto più capillare sul territorio grazie alla diffusione delle app di second hand. Entro il 2026 il volume d’affari del second hand è destinato a raggiungere 82 miliardi di dollari, godendo di una crescita del 275 per cento rispetto ai volumi pre pandemia. Questo aumento vertiginoso è giustificato in parte dalla tecnologia, che ha reso più immediato vendere e comprare abiti e accessori di seconda mano, ma anche da un cambio di prospettiva dei consumatori che, spinti un po’ da fattori di tipo economico e un po’ da una consapevolezza sempre maggiore in fatto di tematiche ambientali, comprano e soprattutto vendono attraverso marketplace online.
Ilaria Chiavacci
Photo: congerdesign
Rassegna del 27 Ottobre, 2023 |
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