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ISSUE
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Un misto di delusione e incredulità, in un quadro caotico di accuse reciproche e spalle voltate al prossimo. La trentesima Conferenza mondiale sul clima della Nazioni Unite, la Cop30 che si è chiusa sabato 22 novembre a Belém, in Brasile, ha rappresentato prima di tutto una doccia fredda. Soprattutto per come era cominciata e per la prima settimana di lavori.
Le fonti fossili fuori dalla decisione finale della Cop30
Il presidente del Brasile Lula aveva infatti posto l’asticella molto, molto alta, proponendo qualcosa di insperato: una roadmap per l’uscita dalle fonti fossili. Un modo per dare finalmente corpo, dopo due anni, alla frase ultra-interpretabile (e per questo debole) che era stata approvata al termine della Cop28 di Dubai, nel 2023: l’ormai celebre transitioning away from fossil fuels, ovvero applicare una transizione dai combustibili fossili. Ciò attraverso una mutirão, traducibile dal portoghese come una mobilitazione collettiva.
A soltanto due giorni dalla fine nei negoziati alla Cop30, però, con grande stupore di tutti l’ultima bozza presentata dalla presidenza del brasiliano André Correa do Lago non solo non presentava alcuna roadmap, ma neppure menzionava più le fonti fossili. Le parole erano, semplicemente, sparite. Segno dell’impossibilità di trovare un qualsivoglia compromesso tra i governi, ancorché al ribasso.
Una decisione talmente sorprendente da aver suscitato perfino il dubbio che potesse trattarsi di una tattica. Sin dal primo giorno, d’altra parte, la presidenza della Cop30 aveva rotto una serie di protocolli, pur di tentare di raggiungere un risultato (e, in questo senso, va detto che aveva mostrato una sincera volontà di provare a rendere la conferenza un successo). La realtà, però, era un’altra: il mondo è ancora troppo diviso su carbone, petrolio e gas. Il mondo non è unanime nel voler considerare le fonti fossili l’unica vera leva utile per risolvere la crisi climatica. Il mondo non è pronto ad ascoltare la scienza.
La prima settimana di lavori, le illusioni e la doccia fredda
La prima settimana della Cop30, dunque, è stata un’illusione. Non soltanto per osservatori e giornalisti, ma perfino per numerosi negoziatori di nazioni vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici. Così, la pubblicazione della bozza priva di ogni menzione dei combustibili fossili ha provocato la reazione sdegnata di numerose diplomazie. Perfino dell’Unione europea: il “perfino” è d’obbligo visto che, dal G20 in Sudafrica, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si lanciava in una pessima acrobazia dialettica affermando che “noi non stiamo combattendo contro le fonti fossili, ma contro le emissioni”.
Nel frattempo, dai corridoi della Cop30 uscivano i “nomi” di chi aveva voluto “salvare” carbone, petrolio e gas. Il Gruppo arabo, innanzitutto, che d’altra parte lo ha dichiarato a chiare lettere in un comunicato. E poi India e Russia. Ma anche la Cina non sembra aver sostenuto se non in modo debole il Brasile, benché paese alleato dei Brics.
Alla plenaria conclusiva della Cop30 alzate di scudi e accuse reciproche
Di contro, in prima linea tra chi ha sbattuto i pugni sul tavolo ci sono state le nazioni più povere della Terra (del gruppo Ldc), quelle insulari (del gruppo Aosis) e soprattutto la Colombia. Che alla fine ha perfino annunciato la volontà di organizzare una sorta di contro-Cop, ad aprile, invitando tutte le nazioni che invece quella roadmap per uscire dalle fonti fossili la vogliono davvero. Iniziativa politicamente lodevole ma che, concretamente, avrà un impatto limitato, anche qualora andasse a buon fine. La realtà, infatti, è che senza Stati Uniti (assenti anche alla Cop30), Cina, India e Russia, non si può agire in modo efficace per limitare le emissioni di gas ad effetto serra.
Alla fine, la Cop30 si è chiusa con una seduta plenaria in cui sono letteralmente volati gli stracci. Come in una riunione di famiglia obbligata, nel corso della quale in tanti fanno buon viso a cattivo gioco finché non arriva qualcuno che “sbotta”, scatenando un effetto-domino. Così, in quella riunione conclusiva nessuno se le è mandate a dire. Anche lo stesso Correa do Lago è stato accusato di aver chiuso la conferenza senza consentire a tutti di esprimersi: ne sono nate una lunga sospensione dei lavori e un’ulteriore indignazione di non poche delegazioni.
Adottato il Global Implementation Accelerator, ma su base volontaria
Ciò detto, alla conferenza di Belém, certo, qualcosa è stato raggiunto. È stato ad esempio lanciato un Global Implementation Accelerator (Acceleratore globale per l’implementazione, in italiano), un nuovo meccanismo che punta a rendere operativo l’Accordo di Parigi. Tuttavia, si specifica a chiare lettere che esso si tratta di un’iniziativa “cooperativa, facilitativa” e, soprattutto “volontaria”. Il che ne limita enormemente la portata.
Poi è stato citato in più punti lungo il testo finale l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale a 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. Si dirà: e questo è un successo?. Risposta: sì, perché nei primi testi usciti tra le “opzioni” presenti c’era anche quella che chiedeva di citare “l’intero Accordo di Parigi”, che parla di rimanere “ben al di sotto dei 2 gradi, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5”. Possono sembrare minuzie, ma nei negoziati delle Cop si tratta di differenze sostanziali.
Adattamento, “Belém Mission to 1.5”, transizione giusta: gli altri temi trattati
Il documento finale della Cop30 ribadisce poi il raddoppio dei capitali concessi ai Paesi in via di sviluppo per l’adattamento (cosa che però era già stata decisa nel 2021) e chiede “che vengano compiuti sforzi per almeno triplicare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2035” (ma nelle versioni precedenti si parlava di 2030…). È stata poi inserita una frase – “le Parti dovrebbero cooperare per promuovere un sistema economico internazionale favorevole e aperto che porti a una crescita economica e a uno sviluppo sostenibili, in particolare nei paesi in via di sviluppo” – che fa chiaramente riferimento al Meccanismo di aggiustamento della CO2 alle frontiere dell’Ue, mal digerito da buona parte del resto del mondo.
Il testo inoltre “riconosce che limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi implica una profonda, rapida e sostenuta riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, del 43 per cento entro il 2030 e del 60 per cento entro il 2035, rispetto ai livelli del 2019, nonché l’azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 2050”. Anche in questo caso si tratta della semplice riproposizione di quanto già indicato dal Global stocktake approvato nel 2023 alla Cop28 di Dubai.
Viene poi lanciata una “Belém Mission to 1.5”, che dovrebbe contribuire a sostenere l’ambizione sia nelle promesse dei singoli governi, sia nei piani di adattamento. Non si precisa però nulla sul suo funzionamento. Ed è stata accettata l’idea di istituire un Just transition mechanism per rafforzare la cooperazione internazionale per una transizione equa. Sono stati poi richiamati i governi ai loro doveri, chiedendo di migliorare le promesse di riduzione delle emissioni climalteranti, le Nationally determined contributions, finora ampiamente insufficienti.
La mancanza di un sistema di valori condiviso nel mondo
Troppo, troppo poco per accontentarsi e per non parlare di un palese fallimento, che ha fatto perfino mettere in discussione il processo imperniato sul multilateralismo. E se è indiscutibile che miglioramenti nel sistema negoziale e (soprattutto) deliberativo delle Cop possano essere i benvenuti, non bisogna mai dimenticare un fattore cruciale, centrale. Il fatto che a spingere nella direzione di un mondo nel quale nessuno vuole rinunciare i propri guadagni, ai propri interessi di parte e al proprio “orticello” è il nostro sistema economico.
Anche l’Unione europea, che si è spesa sulla mitigazione dei cambiamenti climatici, non è stata altrettanto “pronta” quando si è trattato di discutere di fondi per l’adattamento a favore dei paesi in via di sviluppo. La realtà è che nazione (o gruppo di nazioni) va per conto suo. Perché è quello, di fatto, il mandato dei governi: tutelare prima di tutto i propri privilegi.
Possiamo organizzare contro-Cop, riformare i negoziati, immaginare nuove regole. Ma finché non ci sarà un cambiamento culturale, a partire proprio dal paradigma economico, non ci potrà essere una volontà politica condivisa.
Andrea Barolini
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Rassegna del 28 Novembre, 2025 |
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