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ISSUE
313
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corriere.it
Le attese per il ritorno in grande stile degli Stati Uniti nella partita del contrasto al cambiamento climatico iniziano a scontrarsi con le reali questioni sul tavolo. Pochi giorni fa l’inviato per il clima del presidente Biden, John Kerry, ha parlato con il Financial Timesal termine della sua missione europea. E al quotidiano britannico ha sostanzialmente detto due cose: che l’Unione Europea dovrebbe essere più cauta nell’implementare la sua «carbon border tax» (i dazi sui prodotti importati da Paesi che non tassano i gas serra) e che agli Usa non piace neppure molto il progetto europeo di tassonomia verde (le regole anti green-washing per stabilire quando un investimento è veramente sostenibile). Che la tassa sulle emissioni al confine sia uno strumento cha potrebbe avere conseguenze e ricadute anche su altri delicati dossier oltre al clima, primo fra tutti quello del commercio internazionale, è un pericolo ben noto. E ora, soprattutto dopo i primi sforzi della nuova amministrazione Usa proprio sull’allentamento delle tariffe volute da Trump, la questione viene a galla in modo più evidente. Così come viene a galla anche l’innata diffidenza americana sull’imposizione di lacci e lacciuoli al mercato. In questo caso addirittura una «tassonomia» sugli investimenti, quasi una bestemmia sull’altro versante dell’Atlantico.
Non va dimenticato che gli Usa, tempo addietro, non aderirono al protocollo di Kyoto sull’ambiente proprio in nome della superiorità del mercato, e non di regole calate dall’alto, nel contrasto al cambiamento climatico. E c’è voluto un democratico particolarmente motivato come Barack Obama per arrivare agli accordi di Parigi 2015. Insomma, le differenze di fondo, anche quando si professa buona volontà reciproca, non possono non emergere. Ma l’Europa, proprio su quei capisaldi, non può arretrare. La sua vera (e forse unica) forza consiste soprattutto nell’essere un mercato di 446 milioni di abitanti, il terzo al mondo dopo Cina e India. E anche se la sua rilevanza globale non è all’altezza (e nello specifico del clima l’Ue vale solo il 7-8 per cento delle emissioni mondiali) la sua influenza su questioni decisive, dallo stesso clima alla privacy, dal commercio alla web tax, tanto per fare alcuni esempi, può essere enorme. Si chiama, come spesso si ricorda, «Brussels effect»: l’effetto che fa sì che gli standard europei diventino standard mondiali proprio perché adottati da chi (grandi corporation ma non solo) non vuole rinunciare a un mercato così importante ed evoluto. Se fosse altrimenti avrebbe poco senso chiedere al sistema industriale e sociale dei 27 Paesi lo sforzo immane di ridurre tra il 55 e il 60% le emissioni di CO2 entro il 2030.
Stefano Agnoli
photo: Gerd Altmann
Rassegna del 19 Marzo, 2021 |
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