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La malattia causata dall'ingestione di plastica ora ha un nome: si chiama plasticosi. La plastica riempie i nostri piatti e i nostri bicchieri, non solo per quello che mangiamo e beviamo, ma anche per effetto di quella contenuta nelle polveri domestiche. Lo fa al punto che, è stato stimato, ogni settimana ingeriamo l'equivalente di una carta di credito, circa 5 grammi che finiscono, nel migliore dei casi, nelle feci umane. Capita infatti che la plastica, soprattutto le microplastiche, frammenti cioè inferiori ai 5 mm, si piazzino nell'intestino, o raggiungano il circolo sanguigno accumulandosi qua e là nel corpo. Sono effetti già documentati nel regno animale (specie umana inclusa), ricorda oggi un team di ricercatori sparsi tra Regno Unito e Australia, ma pur se in tanti finora si sono cimentati nell'arduo e necessario compito di capire che effetto fa tutta questa plastica, nessuno finora aveva potuto descrivere un quadro patologico associato negli animali selvatici. Ci sono riusciti loro e pur se non suona come un grande traguardo scoprire una nuova malattia, è un passo necessario per cercare di tutelare la fauna (essere umano compreso verrebbe da aggiungere) dagli effetti della plastica.
Lo studio sulle berte dell'isola di Lord Howe
La malattia in questione è stata battezzata plasticosi e si tratta di una fibrosi associata all'ingerimento di frammenti di plastica. Un rimodellamento anatomico in risposta a uno stato di infiammazione prodotto dalla plastica. L'assonanza è chiara e voluta: la plasticosi, spiegano gli autori sulle pagine del Journal of Hazardous Materials, può considerarsi infatti l'equivalente delle fibrosi causate da altri materiali, come l'asbestosi (per l'amianto), e la silicosi (per la polvere di silicio), tristemente note per essere comuni tra alcune categorie di lavoratori, come lavoratori edili, minatori, lavoratori del vetro e della ceramica. In questo caso per la plasticosi si parla però di una malattia osservata negli animali selvatici, in particolare in alcuni esemplari di berte piedicarnicini (Ardenna carneipes). Una trentina quelle analizzate in tutto e provenienti dall'isola di Lord Howe, un'isola paradisiaca tra l'Australia e la Nuova Zelanda. I ricercatori hanno cercato di capire che impatto avesse la plastica su questi animali sia misurando direttamente il numero e la grandezza dei pezzi di plastica rinvenuti nei loro stomaci, sia analizzando al microscopio le caratteristiche anatomiche del loro sistema digerente.
La plasticosi, la malattia causata dalla plastica
La scoperta che nella pancia di questi animali possono ritrovarsi fino a 200 frammenti di plastica, e parliamo solo di quella visibile, non è stata una sorpresa. D'altronde, è purtroppo noto che gli animali marini siano tra le specie più esposte all'inquinamento di plastica: è nei mari che ne finisce una grossa fetta di quella che produciamo e consumiamo, circa 8 milioni delle 300 tonnellate l'anno. Parte di questa plastica finisce sul fondo dei mari, altra viaggia, raggiungendo luoghi remotissimi, altra ancora finisce mangiata dagli animali: uno studio di qualche tempo fa, per esempio, prevedeva che entro il 2050 praticamente tutti gli uccelli marini avrebbero avuto della plastica nel loro stomaco.
Le berte analizzate dai ricercatori non facevano ovviamente eccezione. Plastica, tanta, è stata trovata nei loro stomaci – in un caso pari a un ottavo del peso dell'animale – e in genere molto di più di quanto osservato in passato, a fronte di un peso degli uccelli leggermente più basso. Associata alla presenza di plastica i ricercatori hanno trovato fibrosi importanti a livello del proventricolo - una parte del sistema digerente che precede il ventriglio, lo stomaco muscolare degli uccelli - che gli autori ritengano sia l'organo interno più interessato dall'ingestione della plastica e indicativa di una risposta a uno stato infiammatorio. “Le ghiandole tubulari, che secernono composti digestivi, sono forse il miglior esempio dell'impatto della plasticosi: quando la plastica viene consumata, queste ghiandole diventano gradualmente sottosviluppate fino a perdere completamente la loro struttura tissutale ai massimi livelli di esposizione”, ha aggiunto Alexander Bond del The Natural History Museum di Tring, in Inghilterra, tra gli autori del paper.
Ma il danno c'era anche negli animali in cui si trovava relativamente poca plastica. Forse, si legge nel paper, perché a farlo può essere anche la forma o la composizione chimica dei pezzetti, anche se pochi. E il danno – che precisano non essere dovuto alle microplastiche - è verosimilmente cronico e compromette la capacità di assordire i nutrienti e di crescere degli animali.
I ricercatori hanno registrato e analizzato anche la presenza di detriti naturali come granelli di pomice, non trovano però correlazione con il danno osservato. A causarlo, dicono, è la plastica, ed è la prima volta si possa parlare di una vera e propria plasticosi negli animali selvatici e liberi. “Considerando i potenziali impatti della plastica sulla salute della fauna selvatica e, per estensione, degli esseri umani per estensione – concludono gli autori - i nostri risultati evidenziano l'urgente necessità di continuare a rafforzare la nostra conoscenza degli impatti sub-letali di questo inquinante diverso”. In primis, concludono, cercando di capire se la formazione di questo tessuto fibroso possa interessare anche altri organi.
Photo: Silke
Rassegna del 17 Marzo, 2023 |
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