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ISSUE 411

Etica e marketing nel settore della moda: il fragile equilibrio tra Csr e diritti dei lavoratori

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Etica e marketing nel settore della moda: il fragile equilibrio tra Csr e diritti dei lavoratori

Le filiere produttive globali del settore moda si reggono su modelli di business che massimizzano i profitti comprimendo i costi del lavoro, spesso a scapito dei diritti fondamentali dei lavoratori. Mentre le multinazionali si affidano a strumenti volontari di Corporate Social Responsibility (Csr) per gestire i rischi reputazionali, la normativa europea cerca di colmare le lacune con la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd). Tuttavia, il rischio che la Csr si riduca a una strategia di marketing (bluewashing) resta elevato, senza un’effettiva redistribuzione del valore lungo la supply chain

 

Le filiere della moda operano secondo due modelli distinti: il primo, rappresentato da brand come Nike, prevede la produzione esternalizzata a fornitori esteri, con il marchio che si occupa solo del branding; il secondo, adottato da H&M, si basa sull’acquisto di beni da fornitori a basso costo, senza necessariamente vendere i prodotti con il proprio marchio.

 

Entrambi i sistemi creano una rete intricata di fornitori, subappaltatori e franchisee, in cui il rispetto dei diritti dei lavoratori passa in secondo piano rispetto all’abbattimento dei costi.

 

Questa dinamica ha spinto molte multinazionali ad adottare codici di condotta (CoCs) nell’ambito della Corporate Social Responsibility per dimostrare il loro impegno etico. Tuttavia, tali strumenti, privi di reale vincolatività, si rivelano spesso inefficaci nel garantire condizioni di lavoro dignitose.

 

La volontarietà delle iniziative Csr consente infatti alle aziende di definirne unilateralmente i contenuti, senza obblighi concreti di miglioramento delle condizioni lavorative.

 

Csr: reale impegno o strategia di marketing?

 

Secondo lo studio di Samantha Velluti, pubblicato sullo European Labour Law Journal, la Csr si è trasformata in molti casi in un meccanismo di bluewashing, ovvero una strategia di marketing che enfatizza la responsabilità sociale dell’impresa senza modificare sostanzialmente il modello di business.

 

Le aziende ottengono così legittimità pubblica senza redistribuire valore lungo la catena di approvvigionamento, perpetuando salari bassi e precarie condizioni di lavoro.

 

Alla base di questa impasse c’è un sistema normativo internazionale debole: le Linee guida Ocse e la Dichiarazione Ilo sulle multinazionali impongono che le aziende straniere non ricevano un trattamento meno favorevole rispetto a quelle nazionali.

 

Questo principio, pur garantendo libertà di impresa, rende difficile attribuire responsabilità diretta alle multinazionali per le violazioni lungo la supply chain.

 

L’Europa prova a intervenire con la Corporate Sustainability Due Diligence Directive

 

A livello europeo, il tentativo più ambizioso di regolamentazione è rappresentato dalla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd), che punta a rendere obbligatoria la due diligence aziendale su diritti umani e impatto ambientale.

 

Nonostante le modifiche che ne hanno ridotto l’ambito di applicazione alle aziende con oltre 1.000 dipendenti, la direttiva rappresenta un passo avanti cruciale.

 

Il suo obiettivo principale è introdurre un quadro normativo vincolante per aziende Ue ed extra-Ue, prevedendo un sistema di responsabilità giuridica e rimedio per le violazioni commesse lungo la filiera.

 

Tuttavia, senza una forte supervisione e strumenti sanzionatori efficaci, il rischio è che le imprese si limitino ad adottare policy di facciata, senza trasformare realmente le condizioni di lavoro nei paesi produttori.

 

L’attuale sistema produttivo globale si fonda su asimmetrie di potere che rendono difficile un cambiamento strutturale senza interventi normativi più incisivi. La Csr, sebbene utile come primo passo, non può sostituire obblighi legali vincolanti che garantiscano tutele concrete ai lavoratori.

 

L’Unione europea, con la Csddd, sta cercando di costruire un nuovo paradigma di responsabilità aziendale, ma affinché questo produca effetti reali, sarà necessario rafforzare i meccanismi di enforcement e superare la logica della mera autoregolamentazione.

 

Solo così sarà possibile trasformare la moda globale da settore simbolo dello sfruttamento a modello di produzione etica e sostenibile.

 

Aurora Magni

 

Photo:  Norbert Höldin 

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