La Newsletter di ESO
ISSUE 411

Il cotone è un ottimo sequestrante di carbonio, solo che spesso ce ne dimentichiamo

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Il cotone è un ottimo sequestrante di carbonio, solo che spesso ce ne dimentichiamo

Difficile sottrarsi talvolta al sospetto che il concetto di ‘materie prime rinnovabili’ -in alternativa alle non rinnovabili generate da combustibili fossili- sia più una scelta di principio che una caratteristica misurabile.

 

A correggere il tiro alcuni studi che puntano a rivedere l’analisi del ciclo di vita – LCA in relazione a questa tematica.

 

Il confronto tra fibre naturali e fibre di sintesi è un vecchio tema su cui i produttori tessili e gli scienziati probabilmente non smetteranno mai di discutere. Ovviamente con argomenti validi da entrambe le parti, ad esempio: il cotone è sì rinnovabile ma necessita di acqua e consuma suolo (se non è biologico anche prodotti chimici) il poliestere no. Un capo di cotone deve essere lavato a 60 gradi e stirato, il poliestere si lava a bassa temperatura e non necessita di stiratura e così via. Ci sono poi confronti che si basano su LCA di prodotti tessili individuate nella letteratura ma che non riguardano gli stessi confini della vita del prodotto, per cui il risultato ottenuto con un’analisi ‘cradle to grave’ non è paragonabile a una ‘game to game’ e così via.  Un errore meno infrequente di quanto non si pensi tanto da indurre la Commissione UE a ricordarlo in relazione ai green claims.

 

Il carbonio biogenico

 

In ogni caso quando parliamo di fibre vegetali è bene, sostengono alcuni ricercatori, distinguere tra carbonio biogenico e carbonio.

 

Il primo infatti  ha origine da fonti biologiche e rappresenta il modo in cui le piante utilizzano la CO 2 e la sequestrano nella biomassa, come nel caso del cotone e delle altre fibre naturali.

 

Il cotone è infatti fatto di cellulosa, polimero composto nella misura del 40% da carbonio, carbonio biogenico che ha rimosso la CO dall’atmosfera durante la crescita della fibra contribuendo a rimuovere dall’aria le emissioni di gas serra responsabili delle alterazioni climatiche. Al contrario, il carbonio nelle fibre di sintesi proviene generalmente da combustibili fossili che sono fatti da molecole di carbonio catturate milioni di anni fa (carbonio ‘fossile’) e che non effettuano quindi processi di cattura del carbonio nel loro ciclo di vita.  Riuso e riciclo dei capi assumono quindi un’ulteriore importanza perché consentono al carbonio immagazzinato nel tessuto di cotone di rimanere sequestrato e non rilasciato nell’atmosfera dopo il primo utilizzo. Se non si fanno queste distinzioni, si penalizzano le fibre naturali a vantaggio delle sintetiche.

 

Questo approccio è alla base di una collaborazione nata tre anni fa tra organizzazioni che si occupano di cotone, la Cotton Incorporated, la  Cotton Research and Development Corporation e i ricercatori della North Carolina State University con l’obiettivo di misurare  l’impatto ambientale del carbonio biogenico immagazzinato nel cotone.  L’impronta di questo carbonio catturato a breve termine non è comunemente quantificato nelle LCA, ma potrebbe avere un impatto sostanziale sulla sostenibilità complessiva di un tessuto. I ricercatori sono infatti arrivati alla conclusione che sia possibile misurare il forcing radioattivo (la capacità di concentrazione della CO2 ) in fasi diverse della vita di un prodotto adottando metodologie LCA dinamiche  anziché statiche, che considerano cioè diversi fasi temporali della durata dell’articolo. Un approccio che dimostrerebbe i vantaggi delle fibre naturali in relazione ad articoli realizzati con fibre non rinnovabili. Considerato da questo punto di vista anche i polimeri biobased e le bioplastiche-in quanto derivati non da carbonio fossile ma da carbonio biogenico- assumono un vantaggio se confrontati a quelli standard.

 

Aurora Magni

 

 

Photo: Yana Tes su Unsplash

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