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ISSUE 425

Adattare l’alpinismo al cambiamento climatico, secondo Hervé Barmasse

«Il limite non è solo ciò che devi raggiungere e superare, ma è la soglia che devi porti se vuoi rispettare ciò che dici di amare», racconta l’alpinista e divulgatore

linkiesta.it

Adattare l’alpinismo al cambiamento climatico, secondo Hervé Barmasse

Le nuove sfide sono il pane quotidiano di Hervé Barmasse, uno degli alpinisti più importanti della sua generazione. Nato ad Aosta nel 1977, è già passato alla storia per le sue prime ascensioni lungo le montagne più lontane (il Muztagata in Cina, il Chogolisa in Pakistan, il San Lorenzo in Patagonia e molto altro) e più vicine (Cervino, Monte Bianco, Monte Rosa), toccando cime anguste e fino a quel momento inviolate dall’essere umano. 

 

Non contento, l’anno scorso ha deciso di rimettersi in gioco percorrendo in bicicletta la Supermaratona, un percorso massacrante – ideato dallo stesso Hervé Barmasse – lungo i tredici passi più iconici della Maratona dles Dolomites, gara ciclistica nata alla fine degli anni Ottanta. Un’avventura caratterizzata non tanto dai chilometri (285), ma dai metri di dislivello (8.500). Di recente è uscito un documentario di cinquantacinque minuti che ripercorre il suo viaggio, terminato dopo quindici ore effettive di pedalata (intervallate da un paio di piatti di pasta per recuperare le energie).  

 

Ma nella vita di Barmasse non c’è solo lo sport ad alta quota. L’alpinista valdostano, che a marzo di quest’anno ha compiuto per primo la traversata invernale in solitaria delle principali vette del Gran Sasso, è anche un arguto divulgatore e sa perfettamente quanto la cultura tossica della performance a ogni costo sia dannosa a più livelli. Compreso nel suo sport, che deve necessariamente trovare delle strategie per adattarsi al riscaldamento globale. Bisogna rallentare, puntare sulla qualità, capire che certe cose non si possono più fare, perché il mondo è cambiato e cambierà sempre più rapidamente. Una transizione prima culturale e poi tecnica. 

 

258 chilometri, 8.500 metri di dislivello: quanto conta la dimensione mentale durante un’impresa del genere?

 

Quando hai un percorso da portare a termine, pensi ad ascoltare te stesso e ciò che ti sta attorno. Devi ascoltare il tuo fisico, la reazione del tuo corpo. Io non sono un professionista della bici, non posso neanche definirmi un amatore, perché quando ho fatto la Supermaratona avevo nelle gambe duemilacinquecento chilometri di allenamento, che sono pochissimi. Un amatore ne avrebbe fatti almeno cinquemila. La bici ha un gesto che devi apprendere, che devi fare tuo. Stavo molto attento alle mie sensazioni, proprio come faccio in montagna da solo. In quelle situazioni sei obbligato a interagire con quello che ti circonda. Parlo, purtroppo, anche del traffico automobilistico: l’attenzione deve essere meticolosa perché non tutti prestano attenzione. C’è poi un tema di connessione con la montagna e con la salita. La salita è una cosa che senti non solo con le gambe e col fiato, perché fa parte di un contesto montano di grande bellezza. Ed è questa bellezza che ti spinge a intraprendere un percorso del genere.

 

Hai mai incontrato, durante la Supermaratona, un “muro” simile a quello che si manifesta attorno al trentesimo chilometro di una classica maratona?

 

La difficoltà non era tanto nei chilometri, ma nei metri di dislivello, che erano circa ottomila. Quelli fanno la differenza. Quel muro cominci a percepirlo quando hai circa cinquemila chilometri nelle gambe, sapendo di essere a poco più di metà strada. È un muro che ti dice di andare piano. Io ho ideato un’iniziativa che ha preso spunto dalle origini della Maratona delle Dolomiti, e il mio obiettivo era portare a termine il percorso. Il fatto che l’abbia concluso un alpinista, e non un ciclista, è stato pensato per uscire dalla dimensione competitiva. Volevo trasmettere il rapporto tra la solitudine e la montagna, tra la solitudine e le due ruote. Tutti nella nostra società andiamo velocemente. Se tu inizi la Supermaratona con l’idea della velocità, rischi di non portarla a termine. È molto più importante gestirsi e capire quando rallentare.

 

L’importanza di rallentare torna anche nel documentario che racconta la Supermaratona. Tu hai sempre promosso le spedizioni pulite, rispettose degli ecosistemi. Ma l’alpinismo in generale sta andando in questa direzione?

 

Ancora oggi, l’alpinismo si basa sullo sfruttamento di tutte le tecnologie immaginabili per raggiungere un record, fregandosene di ciò che lasciamo dietro le nostre spalle. Spesso la montagna viene affrontata con brutalità. Ma se vuoi lasciare la montagna pulita, devi avere con te solo l’equipaggio che riesci a portare su e giù: non puoi avere altro. Bisogna muoversi in autosufficienza per lasciare il proprio passaggio pulito. C’è poi un tema di quantità delle spedizioni: io sono partito da tre o quattro spedizioni l’anno, ora ne faccio una o due anche per limitare la mia impronta di carbonio. 

 

Come cambia il concetto di limite nell’alpinismo? 

 

È un concetto da stravolgere. Non è più legato solo alla performance assoluta. Dobbiamo raggiungere il nostro scopo con il minor impatto ambientale possibile. Io posso correre sull’Everest e metterci dieci ore, posso scalare tutti gli Ottomila in dieci giorni, ma che cosa devo usare per farcela? Servirebbero molti artifizi e molta tecnologia. Ma quegli artifizi, spesso, vengono abbandonati sulle montagne. Dobbiamo rivedere il nostro atteggiamento perché il limite non è solo ciò che devi raggiungere e superare, ma è la soglia che devi porti se vuoi rispettare ciò che dici di amare.

 

L’approccio alla disciplina sta finalmente cambiando? O siamo ancora lontani? 

 

Non noto un cambio di approccio. Per dire, il Cai (il Club alpino italiano, ndr) continua a promuovere spedizioni fuori dall’Italia. Ci sono molte spedizioni extra-europee promosse e pagate dal Cai. Non basta, però, promuovere un messaggio: servono i fatti. E i fatti, secondo me, riguardano la promozione di un certo tipo di alpinismo. Non sto dicendo che non bisogna più viaggiare in luoghi lontani. Serve tuttavia una consapevolezza dei danni ambientali di tutte quelle spedizioni.

 

C’è anche un grosso tema di marketing.

 

Lo sportivo fa quello che è di tendenza: fino a quando si promuove che chi va sull’Himalaya è più figo di chi va sugli Appennini, non ci sarà mai un cambiamento. Per me, diminuire le spedizioni è stato difficile. Lo è stato anche perché devi dare una giustificazione al tuo sponsor. Deve cambiare l’intero sistema. E il problema è che non se ne discute mai, anche tra gli alpinisti più giovani. 

 

Quest’estate si è parlato di overtourism anche nelle località montane. Le polemiche sono state tante: l’ipotesi di revoca del Patrimonio Unesco dalle Dolomiti, i tornelli, i bivacchi sotto assedio. Il turismo deve riconvertirsi, destagionalizzarsi e adattarsi all’aumento delle temperature. Anche qui torna l’importanza di rallentare?

 

Se vuoi un turismo spalmato sui dodici mesi, devi creare i servizi che in montagna vengono a mancare. La politica investe ancora in un turismo che passerà a causa dei cambiamenti climatici, ma ha anche iniziato a togliere i servizi che fanno sì che in certe località si possa vivere tutto l’anno. Si può avere lo smart working, ma per vivere la montagna tutto l’anno servono i servizi. Bisogna pensare alla montagna non più come destinazione turistica, ma come luogo in cui poter vivere e praticare alcuni mestieri che un tempo, in questi spazi, non si potevano fare. Nelle Dolomiti o in Valle d’Aosta ci sono tantissimi posti in cui stare completamente da soli: basta fare qualche chilometro e spostarsi. L’overtourism è alimentato da un certo tipo di comunicazione che punta sulle solite destinazioni. Ma c’è molto altro. Il tornello è stato un gesto di protesta, non una volontà di lucro. È simbolico perché dice alle persone di aspettare in coda, proprio come quando vanno a sciare. È sempre una questione di scelte. 

 

Fabrizio Fasanella

 

Foto: © Alex D'Emilia

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