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ISSUE
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Uno studio pubblicato sul European Labour Law Journal a firma di Samantha Velluti (University of Sussex, Brighton) analizza le modalità con cui il sistema legislativo europeo da un lato e le imprese dall’altro affrontano il problema del controllo sociale della filiera. Ne esce un quadro articolato in cui legislazione da un lato e strategie dei brand dall’altro rappresentano approcci diversi ma necessariamente collaborativi.
L’autrice fornisce innanzitutto qualche elemento per fotografare il contesto: “nel settore dell’abbigliamento possiamo identificare due modelli. In un modello un’azienda non produce nulla nel suo paese d’origine, ma semplicemente marchia prodotti realizzati in altri paesi dai suoi fornitori (es. Nike e le sue strategie di branding”. In un altro modello, un rivenditore si rifornisce di beni dai fornitori con i costi più bassi solitamente da fornitori al di fuori del proprio Paese d’origine. I prodotti possono o meno essere venduti con il marchio del rivenditore dal rivenditore” (è il caso di H&M). In entrambi i casi le imprese globali comprendono una rete complessa di sussidiarie, franchisee, fornitori, appaltatori e subappaltatori e costringono i produttori a violare i diritti dei lavoratori per tagliare i costi del lavoro oltre confine al fine di massimizzare i profitti, eludendo al contempo la responsabilità per le ingiuste condizioni di lavoro nelle catene di fornitura. “
Una complessità che spinge i brand globali a mettere in campo azioni private a sostegno della propria corretta gestione della supply chain.
La proliferazione di meccanismi CRS privati è infatti la risposta alla lunga assenza di un regime del lavoro concordato a livello internazionale e applicabile. Secondo l’autrice la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro dell’OIL del 1998 ha promosso un sistema volontaristico nell’OIL “che riduce significativamente l’enfasi sulle responsabilità governative e incoraggia una vasta gamma di attori, dalle multinazionali ai consumatori, ad assumere la guida nella definizione, promozione e persino applicazione di questi standard”.
I codici di condotta privati possono essere di diversa tipologia. La maggior parte sono emessi da singole aziende, sebbene alcuni siano adottati da organizzazioni aziendali private e altri provengano da sindacati, organizzazioni non governative (ONG), gruppi di campagne dei consumatori, enti di beneficenza e altri enti. Soprattutto “sono motivati dall’esigenza di un’azienda di preservare o legittimare un’immagine pubblica rispettabile, soprattutto se il prodotto o il marchio è ampiamente pubblicizzato ai consumatori”. In altre situazioni “le aziende traggono legittimità dagli impegni CSR che distolgono l’attenzione dai modelli di business sfruttatori” , inoltre ‘le multinazionali “utilizzano strategicamente la CSR per respingere le critiche ai loro modelli di business e alle dinamiche della supply chain, rifiutandosi di ridistribuire il valore lungo la supply chain sotto forma di salari più alti per i lavoratori’.
In questi casi l’uso della CSR si riduce a una strategia di marketing piuttosto che un vero e proprio strumento per garantire il benessere dei lavoratori e si configura come bluewashing, ovvero una forma di marketing ingannevole che sopravvaluta l’impegno di un’azienda verso pratiche sociali responsabili.
Alla base vi è secondo l’autrice, una debolezza nell’impianto legislativo: “le multinazionali beneficiano del principio di trattamento nazionale, sancito nelle Linee guida OCSE e nella Dichiarazione ILO sulle multinazionali , secondo cui non deve esserci un trattamento meno favorevole delle multinazionali rispetto a quello accordato in situazioni simili alle imprese nazionali”. Un approccio che allontana l’impresa committente dalla responsabilità di essere fattore di cambiamento sociale e non solo attore del business in Paesi povere in cui il lavoro è scarsamente regolamentato e le modalità in cui è svolto sono poco o nulla monitorate.
A standard concepiti soprattutto per mettere il committente ‘in sicurezza’ rispetto le eventuali criticità sociali della sua supply chain si abbina quindi una legislazione debole nell’imporre un sostanziale piano di applicazione dei principi della CSR nella filiera della moda.
La Corporate Sustainability Due Diligence Directive, malgrado le modifiche subite che la rendono applicabile alle imprese con più di 1000 addetti, “presenta alcuni passi avanti nella regolamentazione legale dei diritti umani aziendali e della due diligence ambientale che hanno una potenziale rilevanza globale. Il suo punto di forza principale è che introdurrà un quadro obbligatorio a livello UE da applicare sia agli Stati membri sia alle aziende UE ed extra UE. Prevede inoltre un sistema di responsabilità e rimedio che ha il potenziale per introdurre un concetto di regolamentazione in cui la legge è strumentale nel plasmare la produzione aziendale, ma anche “coscienza aziendale”.
Fonte: Velluti, S. (2024). Labour standards in global garment supply chains and the proposed EU corporate sustainability due diligence directive, European Labour Law Journal , 15 (4), 822-850
Aurora Magni
Photo: Allan Wadsworth su Unsplash
Rassegna del 07 Febbraio, 2025 |
20 di 25 della rassegna... |
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