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E’ di febbraio la notizia dell’assegnazione del premio Nobel per l’ambiente 2024 a Johan Rockström, professore di scienze ambientali all’università di Stoccolma e studioso dei ‘confini planetari della Terra’.
Cambiamento climatico, acidificazione degli oceani, riduzione dello strato di ozono, degrado forestale e altri cambiamenti di utilizzo del suolo, modifica dei cicli biogeochimici di azoto e fosforo, eccessivo sfruttamento delle risorse idriche, perdita di biodiversità, inquinamento atmosferico da aerosol, emissioni di sostanze chimiche critiche, sono processi biofisici fondamentali per il nostro Pianeta. Per ciascuno di essi Rockström ha proposto di assegnare dei limiti quantitativi, oltre i quali sarebbe in pericolo la sopravvivenza stessa della vita.
Un riconoscimento importante ed anche l’occasione per chiederci: stiamo facendo abbastanza?
Malgrado l’impegno della COP 21 del 2015 a mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi rispetto ai valori preindustriali, il 2023 ha registrato un aumento della temperatura media globale di 1,498°C, circa + 0,17°C rispetto al 2016. Un balzo notevole ed è probabile che la media sui 12 mesi supererà nel 2024 quota 1,5°C. (Fonte: Copernicus).
Il Dottor William Nordhaus, altro premio Nobel per gli studi sui cambiamenti climatici, sull’American Economic Journal di un anno fa affermava che “non c’è praticamente alcuna possibilità che l’aumento della temperatura sia inferiore ai 2°C anche con politiche di cambiamento climatico immediate, universali e ambiziose“. Senza dimenticare che se pesano i fenomeni climatici in senso stretto, un effetto non irrilevante è imputabile anche alle guerre, alle distruzioni e alle emissioni tossiche che provocano sull’ambiente oltre naturalmente al costo umano e sociale.
L’elefante nella stanza è diventata un enorme scorpione velenoso
La metafora della problematica ambientale come un pachiderma comodamente seduto in una stanza, trasmette l’idea quasi rassicurante di aver sì a che fare con un tema che non puoi ignorare data la dimensione, ma tutto sommato statico. Per questo i ricercatori di Oxford hanno sostituito il pacioso elefante con un più combattivo scorpione velenoso pronto a balzarti addosso.
In uno studio intitolato infatti ‘The Green Scorpion: the MacroCriticality of Nature for Finance’ vengono analizzati gli effetti di un ambiente naturale malato a causa delle attività umane sulla qualità della vita degli abitanti della terra. Giusto un assaggio del report: ’l’erosione del capitale naturale legata alla perdita di biodiversità e al degrado ambientale genera rischi significativi a lungo termine per la società, l’economia e la finanza, tra cui la perdita del valore derivante la perdita di impollinatori per l’agricoltura di oltre 400 miliardi di dollari e rischi per le catene di approvvigionamento globali derivanti dallo stress idrico e dalla inquinamento di oltre 5 trilioni di dollari.’
Una preoccupazione condivisa anche dagli estensori del rapporto The economics of climate change: no action not an option, pubblicato dallo Swiss Re Institute nel 2021, in cui si sosteneva che l’economia globale potrebbe perdere il 10% del suo valore economico totale entro il 2050 a causa dei cambiamenti climatici.
D’accordo, possiamo discutere se il PIL è lo strumento giusto per misurare la qualità della vita che è fatta di relazioni, sentimenti, buona musica e altre cose non quantificabili, ma avendo gli economisti la brutta abitudine di usare i numeri, il dato un po’ fa riflettere.
Cosa pensa l’opinione pubblica
Se le problematiche ambientali erano negli anni 70 oggetto di riflessione per uno sparuto gruppo di scienziati ed economisti (ricordate il Club di Roma e I Limiti Dello Sviluppo?) qualcosa cambia a partire dal nuovo secolo che vede una crescente preoccupazione per temi quali l’inquinamento, l’effetto serra, la perdita di biodiversità. Un picco nella diffusione della cultura ambientalista ed una crescente attenzione al tema da parti dei settori economici si hanno intorno al 2015, anno ricordato per la COP 21, l’Agenda 2030, per l’Enciclica Laudato Sì e per eventi a connotazione ambientalista come EXPO.
A distanza di quasi 10 anni siamo di fronte a una situazione di stabilizzazione, il che è insieme un bene (l’opinione pubblica è complessivamente consapevole) e un limite (può non esserci quella spinta dirompente di cui si ha bisogno per affrontare crisi difficili).
Per vedere il bicchiere mezzo pieno possiamo dire che al di là di sparute frange di ambientalisti imbrattatori più preoccupati di fare testimonianza che entrare nel merito delle soluzioni, si registra nell’Occidente industrializzato e benestante, il costante inserimento di approcci di misurazione e mitigazione degli effetti ambientalmente negativi in strati sempre più ampi della società, anche a causa di un crescente sistema di regolazione legislativa e normativa. Potremmo fare di più, ovviamente ma 20 anni fa non avremmo parlato di transizione sostenibile della moda con l’impegno con cui ne parliamo adesso, produttori e consumatori compresi.
Secondo uno studio della società di ricerca IPSOS presentato al 2° forum ESG 2030 promosso dal Ministero dell’Ambiente e da Unioncamere il 18 e 19 aprile 2024, è vero che crescono nell’opinione pubblica i sostenitori delle politiche ecologiche (23% degli intervistati nel 2023 +3% sul 2018), ma crescono anche gli ecoscettici (22%, +9 % sul 2018). Secondo i ricercatori di IPSOS c’è poca convinzione sulle politiche dei governi (la ricerca ha coinvolto 21 Paesi) e il 56% delle persone intervistate pensa che la crescita e lo sviluppo del Paese dovrebbe essere legata alla sostenibilità economica e sociale (bel risultato ma a pensarla così nel 2022 era il 62%).
Certo preoccupano altri fattori che chi studia sa essere legati (anche) a temi ambientali ma che i cittadini recepiscono soprattutto e legittimamente come minacce al proprio benessere: l’inflazione, le crisi internazionali, le guerre. Tra i fattori che preoccupano c’è sì anche il cambiamento climatico ma ‘solo’ al 7^posto.
E le imprese in questo scenario?
Cito una frase di Andrea Alemanno di IPSOS che può stimolarci a riflettere sulle strategie che adottiamo nel sistema industriale e su come le comunichiamo: ‘abbiamo un problema di fiducia, non di disinteresse’. Cioè i consumatori chiedono alle imprese prodotti sostenibili, ma anche rigore e onestà intellettuale.
Dal canto suo la UE sta avviando una guerra al greenwashing e la stampa ci informa sugli inciampi anche di blasonati brand del Made in Italy. Comunicare il proprio impegno in termini di sostenibilità equivale a muoversi in un terreno scivoloso, lo sanno bene i marchi che hanno promesso riduzioni importanti dei propri carichi ambientali entro il 2025 o il 2030 e che stanno verificando che la riduzione dei GHG score 3 (filiera) non è così facile da raggiungere o solamente da verificare.
Ma se torniamo al lavoro che le imprese della moda sanno fare bene (capire i consumatori) forse, senza rinunciare a ridurre la CO2eq, può essere utili fare un passo indietro e chiedersi: cosa vogliono i consumatori?
Premetto: il dato (sempre da IPSOS) è generale e non è riferito solo al prodotto tessile/moda ma ci può essere utile:
il 37% delle persone chiede prodotti/servizi per rispondere alle varie paure generate da una realtà percepita come minacciosa (covid, rischi energetici etc): articoli sicuri e protezione,
un più modesto 7% sceglie prodotti coerenti con la propria visione etica della realtà (qui ci sono i duri e puri della sostenibilità),
il 56% chiede qualità (prodotti fatti bene, controllati etc).
Che la qualità sia un aspetto sempre più connesso con la sostenibilità lo sappiamo bene noi che ce ne occupiamo per lavoro o per scelta di vita, ma forse dovremmo farlo capire di più ai consumatori. Occorre fornire prodotti che parlino alle esigenze dell’oggi (non solo di promesse future non verificabili) con il linguaggio della verità e della trasparenza. Servono aziende capaci di dimostrare nei fatti che non ci sono solo inquinatori seriali e no profit ma anche e soprattutto imprese capaci di abbinare business a responsabilità sociale, redditività alla difesa dell’ambiente. E’ necessario chiarire il ruolo che le imprese possono svolgere nelle questioni ambientali, sociali e di governance (ESG) per ri-costruire su questa base un nuovo rapporto fiduciario con i consumatori prima che il bicchiere sembri pericolosamente e irrimediabilmente solo mezzo vuoto.
Aurora Magni
Photo: ANIRUDH
Rassegna del 10 Maggio, 2024 |
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