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ISSUE 419

Fast fashion e inganno globale: abiti usati del Regno Unito abbandonati nelle zone umide protette del Ghana

theguardian.com

Fast fashion e inganno globale: abiti usati del Regno Unito abbandonati nelle zone umide protette del Ghana

Traduzione e adattamento da The Guardian, 18 giugno 2025 – a cura della redazione GOGREEN

 

Un’inchiesta condotta da Unearthed (il team investigativo di Greenpeace UK) insieme a Greenpeace Africa ha documentato un caso eclatante di dumping tessile ambientale: enormi quantità di vestiti usati provenienti dal Regno Unito finiscono illegalmente nelle aree protette del delta del fiume Densu, in Ghana, in piena violazione della Convenzione di Ramsar, che tutela queste zone umide di importanza internazionale.

 

I vestiti, in parte ancora riconoscibili per etichette e loghi, appartengono a noti marchi della grande distribuzione:


- Marks & Spencer
- Primark
- H&M
- Zara
- Next
- George at Asda


 

Questi capi vengono trovati accatastati tra le mangrovie, impigliati in reti da pesca, sparsi lungo i corsi d’acqua o bruciati all’aperto, contribuendo a devastare un ecosistema delicatissimo dove vivono tartarughe marine, uccelli migratori e numerose specie acquatiche locali.

 

Il paradosso del “riciclo”

 

Ogni settimana arrivano ad Accra oltre 1.000 tonnellate di abiti usati, gran parte delle quali viene immediatamente scartata perché inutilizzabile. Con una capacità locale di gestione che si stima inferiore alle 30 tonnellate al giorno, il resto viene abbandonato, sepolto o bruciato.

 

Quello che viene presentato come “solidarietà” o “donazione” è spesso solo un travestimento per lo smaltimento indiscriminato di rifiuti tessili, aggravando l’inquinamento in Paesi con infrastrutture inadeguate e scaricando il costo ambientale sulle comunità più vulnerabili.

 

L’impatto sulle persone e sull’ambiente

 

Nelle zone rurali come Bortianor, le reti da pesca si intasano di vestiti, le spiagge si trasformano in discariche e le emissioni tossiche dei roghi notturni minacciano la salute degli abitanti.

 

Un pescatore ha raccontato:


“Ogni giorno il fiume ci porta sacchi di vestiti. Non possiamo più pescare. L’acqua è sporca, e la notte si sente l’odore di plastica bruciata.”

 

Risposte insufficienti

 

I marchi coinvolti dichiarano di avere programmi di raccolta e riciclo (“take-back”), ma Greenpeace denuncia l’assenza di tracciabilità e la mancanza di una vera responsabilità estesa del produttore (EPR).

 

Senza un sistema vincolante e controllato a livello internazionale, l’export dell’abbigliamento post-consumo continuerà a trasformare il Sud globale in discarica della moda occidentale.

 

Il messaggio di GoGreen

Ciò che emerge da questo reportage è chiaro: non basta dire “riciclo” per fare sostenibilità. Serve trasparenza, serve controllo, serve etica.
La fast fashion, alimentata da modelli di consumo compulsivo e da filiere opache, sta causando un impatto silenzioso ma devastante.

È ora di cambiare davvero: meno spreco, meno illusioni, più responsabilità.

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