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economiacircolare.com
La pubblicazione di progetti europei di estrazione di materie prime critiche fuori dai confini dell’Unione mette in allarme la società civile: “L’Unione Europea deve tener fede ai propri impegni in materia di diritti umani, diritto internazionale e impegno democratico”.
Qualche dubbio era venuto. Qualcuno (Oxfam, FERN) aveva già avvertito che mettendo a terra i principi del Green Deal l’Europa poteva rischiare di indossare il suo migliore abito ‘verde’ scaricando sul resto del mondo – quello meno industrializzato e meno responsabile delle crisi ambientali – gli oneri della transizione green.
Il più recente sostegno a questa lettura potrebbe arrivare dall’approvazione dei 13 progetti per la fornitura di materie critiche (CRM-Critical Raw Materials) in paesi terzi, esterni cioè ai confini dell’Unione: dalla Groenlandia alla Nuova Caledonia a Madagascar, Malawi, Sud Africa. E c’è già chi parla di “modelli coloniali”.
I progetti condivisi con paesi terzi
Tra i 13 progetti strategici, ricorda il nostro Andrea Turco, sette si trovano in Canada, Groenlandia, Kazakistan, Norvegia, Serbia, Ucraina, Zambia, due si trovano in Groenlandia e Nuova Caledonia, mentre i restanti si trovano in Brasile, Madagascar, Malawi, Sud Africa e Regno Unito. “Dieci di questi progetti– scrive la Commissione – riguardano materie prime strategiche essenziali per veicoli elettrici, batterie e accumulo di batterie, come litio, nichel, cobalto, manganese e grafite. Due progetti strategici coprono l’estrazione di elementi di terre rare, che svolgono un ruolo chiave nella produzione di magneti ad alte prestazioni utilizzati nelle turbine eoliche o nei motori elettrici per le tecnologie di energia rinnovabile e la mobilità elettrica. In combinazione con i tre progetti strategici dell’UE che coprono il trattamento delle terre rare, questi progetti aggiuntivi saranno in grado di aumentare la sicurezza dell’UE di approvvigionamento di terre rare. I progetti strategici coprono anche il rame, utilizzato dalla rete elettrica alla microelettronica, tungsteno e boro, utilizzato nei settori automobilistico, delle energie rinnovabili, aerospaziale e della difesa”.
Le preoccupazioni della società civile
Anche se la Commissione etichetta questi progetti come win-win, tutti vincono e nessuno perde, qualche perplessità è emersa. Secondo la EU Raw Materials Coalition – di cui fanno parte ad esempio European Environmental Bureau, WWF, Amnesty Itnernational, Oxfam, Climate Action Network, Friends of the Earth Europa, Transport and Environment, ECOS, Cultural Survival, FERN – “questi progetti mancano di adeguate garanzie, trasparenza e coinvolgimento locale, mettendo a serio rischio i diritti umani, i diritti delle popolazioni indigene e la tutela dell’ambiente”. Bazzecole, insomma, soprattutto se lette alla luce della just transiton di cui tanto si è parlato.
Definendo appunto i caratteri di equità che la transizione green non avrebbe non potuto garantire, l’Europa si è impegnata a far sì che “la transizione verso un’economia climaticamente neutra avvenga in modo equo e non lasci indietro nessuno”.
Ma resta sempre da verificare, in questa fase storica soprattutto, qual è il perimetro entro in cui vige il principio di coerenza. Chi saranno i fortunati inclusi nella just transition e quali invece gli esclusi. Quelli delle famigerate “zone di sacrificio” che hanno sopportato e dovranno sopportare il peso del nostro insostenibile sistema di produzione e consumo, e che rischiano di pagare anche gli effetti collaterali dalla transizione “green”.
Se a guidare è il riarmo
Denunciando l’approccio che muove i 13 progetti, la coalizione europea addita, nelle iniziative sulle materie prime critiche, uno slittamento: dalla centralità del Green Deal a quella del Rearm Europe, della militarizzazione. Slittamento che “mette a rischio i diritti umani e l’ambiente, mentre i pacchetti omnibus distruggono le ambizioni dell’UE stabilite nella direttiva sulla due diligence sostenibile delle imprese e nel regolamento sulle batterie”. Stiamo assistendo infatti allo svuotamento dei concetti di sostenibilità e giustizia, di cui alcuni sfortunati pagheranno le conseguenze. “Diversi progetti selezionati – ricorda la nota della EU Raw Materials Coalition – hanno sede in Paesi al di fuori dell’UE con sistemi di governance industriale deboli, il che solleva un dubbio sulle modalità di attuazione dei partenariati strategici sul campo”.
In nome di un impiego puramente formale dei termini “sostenibilità” e “giustizia”, rischiamo di giustificare una approccio estrattivista e neo-coloniale. Afferma Robin Roels, Policy Officer for Raw Materials dello European Environmental Bureau e coordinatore della Coalizione UE per le materie prime: “L’elenco dei progetti strategici comprende progetti minerari stranieri in Paesi con una scarsa sorveglianza ambientale. Senza criteri chiari, salvaguardie e divulgazione pubblica, questi progetti rischiano di ripetere i modelli coloniali di estrazione delle risorse“.
Free, prior and informed consent
Le norme europee sulle materie prime critiche, concepite per contribuire a rendere sicure le catene di approvvigionamento, dovrebbero invece “evitare di esportare danni sociali e ambientali”, affermano, WWF, Amnesty Itnernational, Oxfam, Climate Action Network, Friends of the Earth e le altre associazioni. No alla sostenibilità in patria rigettandone sugli altri, i più deboli, i costi. Per questo la coalizione ricorda un principio base, sancito anche dalle Nazioni Unite, per quanto poco possa valere oggi questa assemblea: “I progetti strategici realizzati all’estero – si legge nella nota della Coalizione – non possono procedere senza il consenso libero, preventivo e informato (FPIC-Free, prior and informed consent) delle popolazioni indigene, i cui territori sono spesso colpiti in modo sproporzionato”.
Anche Sophie Grig, ricercatrice di Survival International, ricorda che “è fondamentale ricordare il principio del Consenso libero, previo e informato (FPIC)”. Un principio, precisa, “che deve essere obbligatoriamente ottenuto prima di procedere con qualsiasi progetto che coinvolga il territorio di un popolo indigeno, indipendentemente dal fatto che l’UE gli abbia dato il suo via libera”.
L’Unione Europea deve tener fede ai propri impegni in materia di diritti umani, diritto internazionale e impegno democratico, sottolineano le associazioni della EU Raw Materials Coalition, “garantendo che questi progetti non riproducano i danni dell’estrattivismo”.
Disattesa la Convenzione di Aarhus
Altro motivo di allarme per le associazioni della coalizione è legato al fatto che “la Commissione continui a non fornire informazioni su come sono stati selezionati i progetti, sui criteri utilizzati e su come saranno monitorati e valutati, sollevando interrogativi sul rispetto della Convenzione di Aarhus da parte dell’UE”. La Convenzione di Aarhus, in vigore dal 2001, è il trattato internazionale sull’accesso alle informazioni ambientali, la partecipazione ai processi decisionali in materia ambientale e l’accesso alla giustizia ambientale: “Il principale strumento internazionale giuridicamente vincolante di attuazione e implementazione dell’idea di democrazia ambientale, collegando i diritti ambientali e i diritti umani”, secondo il ministero dell’Ambiente.
La rimozioni delle comunità: il litio di Jadar
Fa riflettere, e pensare male, l’inclusione tra i progetti strategici di quello sul litio di Jadar, il grande giacimento di litio e boro scoperto nel 2004 vicino a Loznica, nella valle di Jadar, Serbia occidentale, a circa 160 chilometri da Belgrado. Si tratta di uno dei giacimenti di litio più grandi al mondo, gestiti da Rio Tinto, la terza più grande impresa mineraria globale.
Per Michael Reckordt, responsabile materie prime dell’associazione tedesca PowerShift, membro di Climate Action Network Europe: “È assolutamente incomprensibile che l’UE abbia incluso nella lista progetti altamente controversi come il deposito minerario di Jadar in Serbia – mi dice -. La popolazione locale sta protestando contro il presidente Vučić e il gigante minerario Rio Tinto”.
Il progetto è stato infatti ampiamente osteggiato dalle comunità locali, dai difensori dell’ambiente e dalla società civile serba. Dopo aver revocato la concessione alla multinazionale anglo-australiana, una sentenza della Corte costituzionale ha giudicato illegittima la revoca e dato il là ad una nuova concessione. Ma le proteste non si sono mai fermate. E la comparsa nell’elenco dei progetti strategici dell’UE, che rischia di alimentare le tensioni sul territorio, secondo la EU Raw Materials Coalition “contraddice i valori dell’UE in materia di governance partecipativa e di rispetto della democrazia locale e della partecipazione al processo decisionale”.
“L’UE ha solo aggiunto benzina al fuoco appoggiando un regime autoritario e una società contro la quale il 63% della popolazione si trova ora a combattere ora che l’intero Paese è in una fase di isolamento e violenza”, ha commentato Aleksandar Matković, ricercatore associato all’Institute of Economic Sciences di Belgrado che collabora con la EU Raw Materials Coalition. In questo modo, ha aggiunto, “l’UE perderà il sostegno in Serbia e nella regione e probabilmente causerà ulteriori disordini sociali”.
Nuova Caledonia
Se quello di Jadar è un progetto controverso fuori dall’UE ma decisamente vicino, i progetti meno vicini potrebbero non essere meno problematici. Aggunge Reckordt di Powershift: “Anche in Nuova Caledonia c’è una resistenza locale all’estrazione del nichel. Il progetto annunciato oggi potrebbe peggiorare ulteriormente la già tesa situazione dei Kanak, la popolazione indigena melanesiana, ed esacerbare i conflitti per l’accaparramento delle terre”.
Nella lista fortunatamente non compaiono altre aree critiche: “Siamo sollevati che l’estrazione di nichel sull’isola di Halmahera, in Indonesia, non sia nell’elenco – mi dice ancora Grig di Survival International – perchè queste attività mettono in grave pericolo la sopravvivenza stessa degli Hongana Manyawa che lì vivono. Se consideriamo che più della metà della produzione mondiale di nichel proviene dall’Indonesia, il fatto che nessun progetto indonesiano sia stato incluso nell’elenco è una conseguenza – e un indice – dei terribili standard ambientali e sui diritti umani che riguardano l’estrazione mineraria in quelle aree”. Ma non dimentichiamo che la Commissione parla di “primi 13 progetti”.
Miniere sì, ma non urbane
Anche senza leggere l’elenco dei progetti era prevedibile che le collaborazioni con gli altri paesi avrebbe fatto leva sull’estrazione e non sul riciclo. Ancora Reckordt: “È inoltre particolarmente critico il fatto che tra i progetti selezionati non ve ne sia nemmeno uno che promuova il riciclaggio: l’obiettivo di un’economia circolare globale non viene quindi preso in considerazione”. E pensare che una adeguata strategia focalizzata sulla valorizzazione delle miniere urbane e dei materiali provenienti da riciclo potrebbe riscrivere radicalmente la prospettive. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, a livello globale, “uno scale-up di successo del riciclaggio può ridurre la necessità di nuove attività estrattive del 25-40% entro il 2050, in uno scenario che rispetti gli impegni nazionali sul clima”.
Vale la pena ricordare, in chiusura, quello che Chiara Martinelli, direttrice di CAN Europe, ha detto a proposito delle semplificazioni e del pacchetto Omnibus ma che riguarda anche quel background culturale che impregna anche i progetti sulle CRM fuori dai confini europei: “Siamo qui per inviare un messaggio unificato e urgente ai decisori dell’UE: difendete le regole che proteggono le persone e il pianeta. Queste regole non sono ostacoli alla crescita, ma le fondamenta di un’Europa sostenibile e resiliente, realmente competitiva e impegnata a garantire il benessere del pianeta e delle persone”.
Daniele Di Stefano
Rassegna del 20 Giugno, 2025 |
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