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La prima notizia è che Shein, l’ultra fast fashion per antonomasia, ha annunciato i suoi obiettivi climatici. La seconda notizia è che questi obiettivi climatici sono stati convalidati dalla Science Based Targets initiative (SBTi). L’iniziativa, che affianca oltre 10mila aziende nei loro percorsi di decarbonizzazione, già nel 2024 aveva avallato i target di riduzione delle emissioni che Shein ha prefissato per il breve termine. A maggio ha approvato anche il piano dell’azienda per azzerare le proprie emissioni nette lungo tutta la catena del valore entro il 2050. Suscitando qualche perplessità tra chi studia l’enorme impatto sociale e ambientale di questo business.
Gli obiettivi climatici di Shein sono davvero credibili?
Leggendo l’ultimo rapporto di sostenibilità di Shein si scopre che le sue emissioni di gas serra, tra il 2023 e il 2024, sono aumentate. E non poco. Sono passate da 21,3 e 26,3 milioni di tonnellate di CO2 equivalente: il 23% in più in appena un anno. Considerando solo le categorie incluse nel monitoraggio validato dalla Science Based Targets initiative (SBTi), l’incremento è più modesto: da 18,1 a 20,4 milioni di tonnellate, il 12,8% in più. Resta comunque una quantità esorbitante: l’impatto sul clima è paragonabile a quello di 4,35 milioni di automobili a benzina in circolazione per un anno.
D’altra parte, secondo le stime non ufficiali, sono circa 600mila i prodotti in vendita su Shein in ogni momento. Il loro prezzo medio si aggira sui 10 dollari. Queste merci viaggiano dai fornitori in Cina ai 150 Paesi serviti in aereo: un mezzo più rapido rispetto alla nave, ma anche sessanta volte più impattante in termini di emissioni. Il colosso cinese promette quindi di sforbiciare drasticamente le emissioni di gas serra già entro il 2030: meno 42% per quelle dirette (Scope 1) e legate all’energia acquistata (Scope 2), meno 25% per quelle della filiera (Scope 3). Per il 2050, invece, punta al net zero. Obiettivi che la Science Based Targets initiative ha approvato.
Più scettica la coalizione Paris Good Fashion, che assegna a questo piano di decarbonizzazione un punteggio di 3,2 su una scala da 1 a 20. La valutazione alla coerenza e credibilità è E: la più bassa possibile. Gli esperti mettono in chiaro che il modello economico dell’ultra fast fashion è incompatibile con qualsiasi ambizione climatica, perché si basa su un aumento smodato dei volumi che vanifica qualsiasi sforzo tecnico messo in campo, ad esempio, per le energie rinnovabili o la sostenibilità dei materiali.
La crisi di credibilità della Science Based Targets initiative
«È qui che entriamo in contatto con i limiti della Science Based Targets initiative – regolarmente criticata e il cui standard di “emissioni nette zero” sta per essere rivisto – che tuttavia viene ancora sbandierata dai grandi gruppi come un elemento chiave una volta convalidati i loro obiettivi», chiosa la testata francese Novethic. Citando un’analisi di Morningstar Susatinalytics da cui emerge come nessuna delle aziende con obiettivi validati dalla SBTi abbia un piano di transizione credibile con la traiettoria degli 1,5 gradi centigradi di riscaldamento globale. Il 56% si colloca tra i 2 e i 2,5 gradi.
La crisi di credibilità della Science Based Targets initiative inizia nella primavera del 2024, quando il consiglio di amministrazione – all’insaputa dei dipendenti – decide di autorizzare l’uso dei crediti di CO2 come “scorciatoia” per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni della filiera (Scope 3). Ne nasce un polverone, il Ceo si dimette e gli esperti mettono nero su bianco che i carbon credits sono inefficaci. Viene meno anche il sostegno finanziario – che alcuni ritenevano interessato – dell’Earth Fund. Vale a dire il fondo di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, che ora preferisce mostrarsi fedele alle politiche trumpiane.
SBTi aggiorna gli standard di decarbonizzazione: cosa cambia
È il momento per rilanciare, dunque. La Science Based Targets initiative ci ha provato lavorando per mesi alla stesura della seconda versione degli standard per l’azzeramento delle emissioni nette delle imprese. «Il senso del cambiamento nello standard è chiaro: vogliamo che sia il più efficace possibile nel promuovere una decarbonizzazione basata sulla scienza», spiega il co-fondatore e direttore tecnico Alberto Carrillo Pineda. «Alcune delle revisioni mirano a rimuovere ostacoli e a rendere lo standard più pragmatico e accessibile. Allo stesso tempo, riconosciamo l’importanza di allinearci con altri framework dell’ecosistema più ampio ed evitare sovrapposizioni, dove possibile».
Le nuove linee guida sono più precise ed esigenti. Per esempio, gli obiettivi di riduzione delle emissioni dirette (Scope 1) e di quelle legate all’energia acquistata (Scope 2) non vengono più cumulati. Al contrario, ciascuno di essi dev’essere allineato alla traiettoria degli 1,5 gradi. Per lo Scope 2, inoltre, bisogna approvvigionarsi di energia verde generata localmente. Resta la possibilità di ricorrere ai carbon credits ma come contributo aggiuntivo volontario, non per rimpiazzare la riduzione delle proprie emissioni. I requisiti sono calibrati in base alla dimensione e alla sede dell’azienda. Resta un processo lungo: la SBTi ha appena invitato le aziende a partecipare a una sperimentazione delle future linee guida, ma quelle attuali resteranno in vigore per tutto il 2025 e il 2026.
Valentina Neri
Photo: freepik
Rassegna del 04 Luglio, 2025 |
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