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linkiesta.it
Nelle sezioni sul clima e l’ambiente dei quotidiani italiani è molto raro leggere aggiornamenti e approfondimenti dedicati al modello della Città 30 e, più in generale, alla riduzione della velocità delle auto nei contesti urbani. La sicurezza stradale viene infatti assimilata esclusivamente ai trasporti e alle infrastrutture, quando in realtà dovrebbe essere affrontata con un approccio olistico e orientato a una ridistribuzione più equa ed ecologica dello spazio pubblico (storicamente dominato dalle auto). Questa inclinazione mediatica è influenzata da un pensiero politico che, come racconta l’architetto e urbanista Matteo Dondé, «valuta i progetti sulla mobilità pensando solamente ai flussi di traffico e alla pianificazione degli spostamenti. Ma ormai è un’impostazione solo italiana».
Ragionare a compartimenti stagni non aiuta a comprendere pienamente il potenziale “verde” della diffusione delle Zone 30, che non sono solo dei bollini rossi sull’asfalto o dei cartelli stradali. La moderazione della velocità può infatti innescare interventi urbanistici fondamentali per ridurre gli effetti del cambiamento climatico: dalla classica depavimentazione alla piantumazione di alberi, arbusti e aiuole, passando dall’uso di materiali innovativi in grado di drenare l’acqua piovana in eccesso durante un’alluvione.
Obbligare le auto a procedere più lentamente è il primo passo per restringere le carreggiate e utilizzare quello spazio per le persone, il verde e gli ambienti di socialità. Si tratta di una visione urbanistica che rende giustizia alla strada come ecosistema in grado non solo di accogliere contemporaneamente utenti diversi, ma anche di proteggere – e valorizzare – le persone più vulnerabili (bambini, anziani) ed ecologicamente meno impattanti sul contesto cittadino (chi si sposta pedalando o camminando). «Due auto che si incrociano a trenta all’ora hanno bisogno di meno spazio di due auto che si incrociano a cinquanta. La riduzione della velocità ti consente subito una distribuzione più democratica dello spazio, tra natura urbana e marciapiedi più larghi», continua Dondé.
L’efficacia diretta della Città 30, termine che indica un centro urbano in cui nella maggior parte delle strade vige il limite dei trenta chilometri orari, è facilmente riscontrabile grazie ai dati. In Europa esistono decine di città, anche di grandi dimensioni (Bruxelles, Londra, Amsterdam, Helsinki), che hanno sposato questo modello e sperimentato un’immediata riduzione degli incidenti e dei morti sulle strade.
A Graz, prima Città 30 d’Europa (ha iniziato il suo percorso nel 1992), gli scontri sono calati del venticinque per cento già nei primi due anni dall’introduzione della misura, con benefici riscontrabili anche sull’inquinamento atmosferico e acustico. In Italia, dove l’eccesso di velocità è la prima causa di incidenti mortali nei contesti urbani, il modello della Città 30 è ancora fortemente ostacolato dalla politica nazionale; non a caso, stando ai dati del 2024, siamo al diciannovesimo posto su ventisette nell’Unione europea per tasso di mortalità stradale (cinquantuno morti ogni milione di abitanti contro i quarantaquattro della media Ue).
Poi ci sono Paesi come il Galles o la Spagna, che hanno reso i “trenta all’ora” una misura nazionale. Uno dei pochi casi virtuosi tra i nostri confini è quello di Bologna, dove nel primo anno di Città 30 i decessi sulle strade si sono quasi dimezzati (-48,72 per cento rispetto alla media dei periodi corrispondenti dei due anni precedenti), non è morto nessun pedone ed è aumentato l’uso delle biciclette, del trasporto pubblico e dei mezzi in condivisione.
A differenza dei benefici sulla sicurezza stradale, però, l’impatto climatico di questo modello è meno tangibile nel breve periodo. Ecco perché i piani cittadini sul clima e sulla mobilità dovrebbero parlarsi, fondersi e puntare su strategie capaci di sprigionare e comunicare i benefici ambientali della moderazione del traffico, un termine che – paradossalmente – non rientra nel nuovo codice della strada voluto dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini. A differenza di quanto accade nei casi italiani, prosegue Matteo Dondé, «Amsterdam non ha un vero e proprio Sustainable urban mobility plan (l’equivalente dei nostri Piani urbani per la mobilità sostenibile, ndr).
Le strategie sulla mobilità sono affidate a diversi strumenti e documenti fortemente integrati e interagenti l’uno con l’altro. Il documento intitolato “Approccio alla Mobilità Amsterdam 2030”, in particolare, stabilisce le linee guida per affrontare le sfide della mobilità urbana fino alla fine del decennio, e al suo interno sta prendendo corpo l’iniziativa “Amsterdam fa spazio”, che tra i suoi messaggi-chiave ha: portare la natura in città, creare reti lente, la strada come parco giochi, quartieri come luoghi d’incontro, città come palestra e arte all’aperto».
L’amministrazione della capitale olandese è riuscita a bilanciare la mobilità con le nuove sfide ambientali e sociali, facendo adattamento climatico partendo dalle strade. Un obiettivo raggiungibile solo attraverso la condivisione di competenze diverse: «Architetti, urbanisti, ecologi, paesaggistici, sociologi. I Paesi Bassi hanno un approccio multidisciplinare, mentre per noi la mobilità rimane una questione ingegneristica».
Le parole-chiave del piano di Amsterdam sembrano fantascienza se lette dall’Italia, dove ogni giorno – stando all’ultimo report dell’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) – perdiamo mediamente circa venti ettari di suolo fertile e drenante. La cementificazione si associa a un’impostazione urbana che vede, in controtendenza rispetto alle grandi città europee, l’automobile al centro.
L’esempio più accessibile da analizzare è quello di Parigi, che fino a dieci anni fa aveva gli stessi problemi di Torino o Milano. Poi nell’aprile 2014 è stata eletta sindaca la socialista Anne Hidalgo, ancora in carica, ed è cambiato tutto: quarantacinque ettari di nuovi parchi; più di cento strade chiuse ai veicoli a motore; tariffe di sosta triplicate per i Suv dei non residenti; cinquantamila posti auto eliminati; centocinquantamila alberi piantati; milletrecento chilometri di piste e corsie ciclabili aggiunti alla rete cittadina.
In un decennio, insomma, la situazione si è ribaltata partendo (anche) da politiche capaci di disincentivare l’uso dell’auto privata, come la diffusione capillare delle Zone 30 (al centro della seconda campagna elettorale di Hidalgo nel 2020). Place de Catalogne, nel quattordicesimo arrondissement, è passata da “isola” di cemento a foresta urbana con quattrocentosettanta alberi: un intervento così complesso non sarebbe stato possibile senza ambiziose politiche di moderazione del traffico nelle strade circostanti.
Ora, sempre nella capitale francese, ci sono vie in cui il pedone può camminare in mezzo alla carreggiata perché ha la precedenza: «Le auto possono passare, ma devono rallentare e aspettare il passaggio delle persone a piedi», dice Dondé. Quello appena descritto è un caso di strada condivisa o «strada salotto», che riesce ad accogliere contemporaneamente più utenti diversi, dando priorità a quelli vulnerabili, senza realizzare infrastrutture (marciapiedi, ciclabili) che dividano i flussi di circolazione.
Nelle strade condivise, conclude l’architetto, «non ci sono più i marciapiedi e le fasce della sosta, ma un unico spazio senza barriere architettoniche, dove tutto è sullo stesso livello e l’asse stradale non è più rettilineo anche grazie, per esempio, alla presenza di un albero in mezzo alla carreggiata. Così, l’auto si sente ospite all’interno di uno spazio, e non viceversa. Sono le basi della moderazione del traffico, che disincentiva l’eccesso di velocità e punta a cambiare linguaggio». La riduzione della velocità è quindi propedeutica alle novità capaci di incrementare la vivibilità urbana, un concetto che non può essere slegato dal livello di adattamento climatico.
Fabrizio Fasanella
Photo: freepik.com
Rassegna del 30 Agosto, 2025 |
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