La Newsletter di ESO
ISSUE 423

Tra le montagne del Laos, dove si fa scuola di ecoturismo da 30 anni

L’ecoturismo è la bandiera del Laos. Tra le sue montagne impariamo cosa significa scoprire un luogo avendo un impatto positivo su conservazione e comunità, in un viaggio insieme ad Avventure nel Mondo.

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Tra le montagne del Laos, dove si fa scuola di ecoturismo da 30 anni

Ogni passo, spesso instabile su un terreno che in questa stagione è permeato di abbondante acqua (la stagione delle piogge va da maggio a ottobre), è un’occasione per rendersi conto di quanta vita ci sia in ogni porzione di foresta.

 

L’area protetta di Nam Ha si estende per oltre 224.400 ettari (quasi 2.500 chilometri quadrati) nella provincia di Luang Namtha e ospita più di 2.000 specie di piante, più di 300 specie di uccelli, 37 specie di grandi mammiferi – come i leopardi nebulosi, i rari gibboni dal ciuffo, i pangolini e i gaur.

 

Nam Ha è una delle 25 aree protette del Laos, che coprono complessivamente oltre il 15 per cento del territorio nazionale.

 

La varietà di specie vegetali è riconosciuta come unica, in particolare per il grande numero di piante medicinali e la conoscenza locale dei loro usi. Da quella usata per prevenire la malaria durante la stagione delle piogge, a quella con proprietà antisettiche da sfregare su una ferita, o da far bollire per sistemare i disturbi intestinali.

 

Con le guide iniziamo così un’attività di riconoscimento di piante e dei loro frutti, per imparare a distinguere quelle edibili da quelle tossiche, quelle si raccolgono per essere trasformate (come il rattan, che viene usato per fare sedie e tavolini) e quelle solo da ammirare. Ci imbattiamo in piante più comuni come il cardamomo e il bambù e in altre a noi ancora sconosciute, come il fire fruit, un gustosissimo frutto dal gusto acidulo che scopriamo essere del genere Baccaurea ma senza arrivare a un nome specifico. Avari di nomi scientifici latini, accogliamo anche come risposta “è solo un fiore”, sorridendo, e assaggiamo quello che la foresta ha da offrirci.

 

Avanzando il paesaggio cambia, le piante si irrobustiscono, diventano ancor più maestose mostrando le loro centinaia di anni. E lo sguardo si alza: siamo entrati nella foresta primaria.

 

Quella primaria è una foresta matura, intatta e incontaminata, che si differenzia dalla secondaria che è cresciuta dopo un disturbo o un’alterazione umana (ad esempio da attività di disboscamento o agricole). La foresta primaria è preziosa in quanto è un importante serbatoio di carbonio: assorbe grandi quantità di CO2 dall’atmosfera, contribuendo a mitigare i cambiamenti climatici e al mantenimento della biodiversità.

 

Dopo diverse ore di cammino – siamo a una ventina di chilometri dalla strada principale – usciamo dalla fitta giungla e ci appaiono davanti le prime risaie, segno che siamo vicini al villaggio che ci ospiterà per la notte.

 

Nei villaggi delle popolazioni Khmu

 

L’Area protetta di Nam Ha è popolata da più di venticinque comunità locali, appartenenti alla minoranza etnica Khmu, una delle 49 riconosciute presenti nel Paese. Le popolazioni di questi villaggi vivono da secoli in un rapporto inscindibile con la foresta, da un lato usata come fonte di sussistenza, dall’altra come casa da proteggere.

 

Parlando con uno dei capivillaggio scopriamo infatti che solo il 30-40 per cento del cibo delle comunità arriva dalle coltivazioni, il resto arriva dalla foresta.

 

Qui si coltiva principalmente riso e mais, nei campi a cui le famiglie dedicano gran parte del loro lavoro e che danno una forma antropizzata alle colline montane che circondano il villaggio. Questo è il tempo della semina, il raccolto sarà in novembre.

 

Girando tra le case si notano i rigogliosi orti famigliari e comunitari. Zucche, zucchine, melanzane, cipolle, coriandolo, erbette. Di fianco a loro, torreggiano banani e manghi. Chiudono il quadro oche e galline che scorrazzano libere. Ecco che quello che ci viene offerto nel piatto prende un altro significato: riso (sticky rice, chiamato così per la sua consistenza “appiccicosa” dopo essere stato cotto al vapore), uova e verdure fresche ogni giorno. Insieme ai doni della foresta, dove le famiglie raccolgono e cacciano piccoli animali come scoiattoli, uccelli, serpenti, lumache.

 

Il capovillaggio ci racconta che, oltre alle molte attività di relazione con le famiglie, è sempre in contatto con il governatore della regione, con cui nei decenni si è costruito un rapporto solido e di scambio per garantire un equilibro tra i bisogni della comunità e dell’area protetta. Ci sono quindi degli accordi per contribuire al mantenimento dei sentieri, garantire i diritti sulle terre alle famiglie, mantenere intatte le foreste, concordando un numero annuale di alberi che possono essere tagliati e di animali cacciati.

 

“Quello che facciamo qui è per vivere, non per guadagnare”, ci spiega, facendoci visualizzare con estrema praticità cosa sia un’economia di sussistenza. Spesso un concetto che associamo alla povertà, ma che qui invece si legge come “connessione”, con gli elementi naturali.

 

Il modello di ecoturismo del nord del Laos

 

Il capovillaggio gestisce anche le relazioni con chi si avventura nella giungla e nel villaggio: è lui a comunicarci da quali famiglie saremo ospitati. Questa comunità, come anche altre all’interno dell’area protetta, si è aperta al turismo dalla fine degli anni Novanta. Parlare di turismo, qui, acquisisce un altro significato rispetto ad altre parti del mondo dove causa grandi impatti sull’ambiente e le popolazioni locali. I turisti in quest’area nel nord del Laos sono persone che fanno trekking, hiking, birdwatching, campeggiano nella foresta o remano sul fiume a bordo di un kayak, andando all’avventurosa scoperta della biodiversità e delle persone. Nel villaggio si dorme nella stanza che la famiglia mette a disposizione con materassi e zanzariere, ci si lava nel fiume, il bagno è una turca tra gli alberi. Non c’è comodità, se intendiamo quell’idea esportata dallo stile di vita da cui proveniamo. Ma in realtà c’è tutto. C’è accoglienza, spiritualità e condivisione. C’è senso di comunità, che riacquisisce il significato che ad altre latitudini è andato perso.

 

Questo modo di fare turismo in connessione con la natura non è un caso isolato o fortuito, ma è la vera bandiera del Laos. Proprio nell’area protetta di Nam Ha nel 1999 è stato lanciato il Progetto ecoturismo Nam Ha, supportato dall’Unesco, con l’obiettivo di creare un modello di turismo naturale basato sulle comunità, per alleviare la pressione sugli ecosistemi forestali dell’area e allo stesso tempo generare opportunità lavorative per le popolazioni locali. Soprattutto, aveva la visione e l’ambizione di diventare un modello replicabile in tutto il paese. E così è stato. Forte del successo del modello a Nam Ha, il Laos ha infatti sviluppato e introdotto nel 2005 la Strategia nazionale e il piano d’azione per l’ecoturismo.

 

L’obiettivo era, ed è ancora, fare del Laos “una destinazione specializzata in forme di turismo sostenibile che abbiano benefici sulla conservazione del patrimonio naturale e culturale, sullo sviluppo economico locale e che diffondano consapevolezza in tutto il mondo sulla loro unicità”. Con questo intento, il Paese ha quindi replicato il modello di Nam Ha, dove le guide e le piccole agenzie turistiche sono gestite da persone locali, principalmente di minoranze etniche, e dove ai membri della comunità viene insegnato a diventare eco-guide, svolgendo un lavoro che dà supporto all’Unità di gestione delle aree protette del paese e i loro programmi di conservazione. Non solo, parte del ricavato viene redistribuito proprio all’interno delle comunità, creando quindi un sistema di turismo che mantiene i ricavi esattamente nel luogo in cui viene praticato, alleggerendo le pressioni ambientali e contribuendo all’economia locale.

 

Sulla strada che va dall’area protetta fino a Luang Namtha, infatti, la guida Kham Ohn fa fermare il nostro tuk tuk per riaccompagnare a casa il ragazzo Khmu che sta imparando la professione di guida turistica e l’inglese, che ha trascorso i giorni con noi. Della foresta, però, ne sapeva più di tutti: dalle altre guide era chiamato “l’uomo della giungla”.

 

Conoscenza condivisa con la comunità

 

Questo tipo di approccio al turismo improntato su natura e comunità lo ritroviamo in Than, un’altra guida. Ha appena finito di piovere quando ci accompagna attraverso le vivide sfumature di verde delle risaie per raggiungere una cascata. Siamo a qualche ora di auto, e una di navigazione, più a sud rispetto all’area di Nam Ha.

 

Il nord del Laos è fatto di montagne a perdita d’occhio e non ci stupisce che l’80 per cento del paese sia proprio montuoso. La sensazione di essere avvolti dalle cime rispecchia le caratteristiche di questo territorio: il Laos è l’unico paese del Sudest asiatico senza sbocchi sul mare.

 

La strada che percorriamo collega diverse valli attraversate da fiumi, i tributari del fiume Mekong, come il Nam Ou, che crea sinuose anse tra le montagne che sovrastano Nong Khiaw. Lungo il suo corso abbiamo raggiunto il villaggio di Sopkong, dove la quasi totalità delle famiglie è composta da agricoltori. Vediamo un cartello di “agricoltura biologica” e mi viene da sorridere: raramente nel paese l’agricoltura non lo è. Nelle aree rurali si parla infatti di agricoltura biologica “di default”, perché le tecniche tradizionali non prevedono nessun uso di sostanze chimiche, manca soltanto la certificazione ufficiale.

 

Anche i genitori di Than coltivano riso, in un altro villaggio, ma lui vive qui perché può fare la guida e insegnare inglese, ci racconta mentre indica la montagna che abbiamo davanti, Papang, e ci dice che significa “alveare”, per la sua forma.

 

Than ha “trenta e qualcosa anni” e da nove lavora come guida. Il resto del tempo organizza le classi di inglese per il villaggio. “Le lezioni sono gratuite e aperte a tutti, dai bambini agli adulti. Solitamente siamo in 20-25 persone”, ci racconta con alle spalle la sua lavagna. “Durante questo tempo potrei fare altro, andare a fare la guida in altre zone e guadagnare di più, ma non lo faccio perché insegnando inglese voglio dare qualcosa in più alle persone del villaggio, voglio dare loro un’opportunità”.

 

Il Laos è un paese a prevalenza agricola e soprattutto nelle aree più remote e rurali, come questi villaggi, difficilmente le persone hanno le possibilità economiche di proseguire gli studi. “Vengono anche persone dagli altri villaggi per le mie lezioni, come gli insegnanti delle scuole vicine, o chi guida le barche”. Non impieghiamo molto tempo a capire che quello che sta facendo Than, in questo piccolo villaggio laotiano, ha una portata enorme e rivoluzionariamente altruistica per la comunità.

 

La conservazione delle specie in Laos

 

A parlarci di conservazione e comunità è anche Sone, a Luang Prabang, all’interno del centro di recupero di fauna selvatica di Free the Bears, un’organizzazione internazionale che opera nel Sudest asiatico (Vietnam, Laos e Cambogia). Siamo nel suo ufficio e, mentre fuori la pioggia si fa sempre più battente, ci racconta dell’ultimo salvataggio. “Due cuccioli sono arrivati proprio ieri”, ci dice. Alle sue spalle, il disegno della specie di cui ci sta parlando e a cui è dedicata l’organizzazione: l’orso della luna.

 

Gli orsi della luna (Ursus thibetanus) sono una specie che abita principalmente le foreste montuose, come quelle che ci circondano qui nel nord del Laos, il cui nome è dovuto a una striscia chiara di pelo che hanno sul collo a forma lunare. Si tratta di una specie a rischio, classificata come “vulnerabile” dalla Lista rossa dell’Iucn (l’Unione internazionale per la conservazione delle specie). Le principali minacce sono la perdita di habitat, il bracconaggio, il commercio illegale e le fattorie della bile.

 

Le fattorie della bile sono “allevamenti” in cui gli orsi della luna, rinchiusi in gabbie, vengono sfruttati per l’estrazione della loro bile che viene usata nella medicina tradizionale. Nonostante queste fattorie siano illegali nei paesi in cui l’ong opera, si stima ci siano ancora centinaia di esemplari rinchiusi in diverse strutture, che l’ong vuole chiudano per sempre.

 

“La scorsa primavera abbiamo fatto uno dei più grandi salvataggi di cuccioli, 16 orsi della luna salvati in un solo giorno”. L’obiettivo di Free the Bears è quello di collaborare con le istituzioni e i governi per rafforzare i sistemi di controllo per salvare gli animali dalle attività illecite e dal commercio illegale, curarli e riabilitarli e – quando possibile – rilasciarli di nuovo in natura.

 

In questo centro non ci sono solo orsi della luna, ma anche orsi del sole, macachi, pangolini, diversi uccelli e panda rossi. L’ong svolge infatti anche un lavoro di monitoraggio dei siti in cui questi animali vengono venduti illegalmente online. “La tecnologia è veloce, ma a volte il bracconaggio lo è di più”, commenta Sone mentre ci mostra alcuni gruppi Facebook dove si vedono post con scimmie tenute come animali domestici o altri in cui si vendono parti di animali. “Noi segnaliamo tutto alle autorità, perché comprare questi animali per salvarli significherebbe comunque incentivarne il commercio illegale”.

 

Non appena la pioggia ci dà tregua seguiamo Sone all’interno del centro di recupero, scoprendo le varie zone di accudimento e riabilitazione degli animali. È il momento dello “snack” per gli orsi, semi vari racchiusi in una foglia di banano. “Diamo da mangiare agli orsi quattro volte al giorno, principalmente con verdura coltivata dalle comunità locali”, racconta Sone. “Questo è un fattore importantissimo: perché spieghiamo alle persone che possono contribuire e avere un ritorno economico dalla conservazione delle specie, piuttosto che dal loro commercio”. L’ong ha infatti moltissime attività educative, con un team dedicato, per aumentare la consapevolezza sulla biodiversità e la conservazione, e su come queste abbiano un impatto positivo sulla comunità.

 

Sone ci indica un crinale di una collina vicino a noi. “Quella è l’area di pre-rilascio, dove al momento ci sono due orsi della luna”. È l’area più importante per il processo di reintroduzione in natura, dove lo spazio è molto più ampio e il contatto, anche visivo, con gli umani è azzerato. “In quest’area si preparano a sopravvivere da soli in natura, noi li monitoriamo soltanto tramite telecamere nascoste. Il passo successivo è liberarli in aree protette”. Ci chiediamo se le altre decine di orsi della luna che abbiamo visto nel centro passeranno da quell’area. Per nostra – ingenua – sorpresa la risposta è no.

 

“Non tutti gli animali possono essere rilasciati: alcuni hanno danni fisici dovuti alla reclusione in gabbie, altri erano usati come mascotte nei ristoranti e sono quindi troppo abituati alla presenza umana. Sono una specie selvatica, ma nella pratica non lo sono più. Sono troppo grandi per reimparare a sopravvivere da soli in natura”. Gli esemplari più idonei sono ovviamente i cuccioli, che appena salvati potranno essere “isolati” e mantenuti selvatici. Attualmente, però, la sfida più grande per l’ong è che vengono salvati più esemplari di quelli che, considerati lo spazio e il tempo di riabilitazione, possono essere rilasciati in natura da questo centro. “La maggior parte di loro resterà quindi qui con noi, nelle grandi aree che questo spazio offre. Alcuni esemplari saranno coinvolti in attività di riproduzione in cattività, con l’obiettivo di rilasciare i nuovi cuccioli in natura e contribuire alla conservazione della specie. È una catena di azioni”, commenta Sone.

 

Grazie alle sue risposte realizziamo quanto la conservazione sia un processo, lento, fatto di tentativi, apprendimenti, di vittorie ma anche di sbagli, dove i risultati arrivano con la pazienza e la cura del tempo.

 

Salutiamo Sone che ci ringrazia: tutte le visite nel centro supportano le loro attività per la cura e la conservazione degli animali che abbiamo visto.

 

Riprendiamo la via del ritorno, siamo alla fine del nostro viaggio. Le strade del nord del Laos ormai ci sono famigliari, circondate da diverse viste, le strade si stringono, sono terrose (e tortuose), la natura invadente, le persone sono per strada sedute ai tavolini fuori dalle case in bambù, con i bambini che scorrazzano insieme ai galli.

 

Lasciamo questo paese che ha saputo mostrarci il senso originario delle attività di tutela e scoperta della natura, dove il “turismo sostenibile” esiste, e non ha bisogno di essere etichettato: è l’unico modo di farlo. Dove il senso di comunità prende il suo spazio in qualsiasi processo, un tassello essenziale. Dove chi è aperto alla scoperta, si sente parte di questa catena. E dove, alla fine, sono radicate le parole di Than: “Io rimango qui, perché semplicemente amo questa natura e queste comunità”.

 

Un altro modo di viaggiare

 

Questo viaggio nel nord del Laos lo abbiamo fatto insieme ad Avventure nel Mondo, un’agenzia che propone itinerari di scoperta in quasi tutti i paesi del globo, e da 55 anni lo fa promuovendo un approccio responsabile nei confronti delle comunità e degli ambienti visitati. Questo significa che, come fecero i suoi fondatori negli anni Settanta, si parte organizzati con spazio per l’improvvisazione e l’avventura, ma sempre attenti al rispetto e a generare un impatto positivo. Ad esempio, siamo sempre stati accompagnati da guide locali o da piccole agenzie locali che redistribuiscono parte del ricavato nella comunità, e siamo stati ospiti da famiglie locali. Si viaggia insieme a un gruppo di sconosciuti, ma con la certezza di condividere gli stessi interessi e modalità di scoperta. In Laos, ad esempio, siamo partiti in 14 “estranei”, ma siamo tornati come un gruppo di complici entusiasti. Si tratta di un modo per ritrovare il valore della scoperta, della condivisione e della consapevolezza.

 

Camilla Soldati

 

Photo: lifegate.it

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