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ISSUE
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greenpeace.org

L’Unità investigativa di Greenpeace e la trasmissione Report di Rai3 hanno seguito per un anno, da giugno 2024 a maggio 2025, il percorso di 26 capi d’abbigliamento usati (14 integri e 12 danneggiati), dotandoli di tracker GPS in grado di trasmettere la posizione. L’obiettivo della ricerca era svelare la fine di vestiti e scarpe buttati nei cassonetti per il riciclo o affidati ai servizi di raccolta di grandi marche del settore moda come H&M, Zara e Nike.
Come raccontato ieri nel servizio di Report intitolato “Panni sporchi”, il monitoraggio ha permesso di fare luce in una rete intricata, che spesso ha poco a che vedere con la beneficenza, e molto con il profitto e le illegalità.
Solo 2 su 26 capi sono arrivati al mercato del riuso
Dei 26 capi tracciati e consegnati da Greenpeace Italia e Report ai servizi di raccolta per abiti usati di 11 città italiane, solo due hanno trovato collocazione nel mercato del riuso. Rimane incerto il destino di tutti gli altri: 4 sono finiti in India e 4 in Africa, in zone prive di strutture necessarie per trattare nel modo corretto gli scarti tessili, mentre i restanti si sono fermati tra Italia ed Europa.
Due vestiti sono arrivati in Tunisia, uno in Mali e uno in Sudafrica, alimentando un sistema che sfugge a qualsiasi controllo; tre capi hanno raggiunto Panipat, un’area dell’India in cui l’inquinamento generato dall’industria informale del riciclo avvelena le acque, mentre i vestiti non recuperabili finiscono per essere bruciati rendendo l’aria irrespirabile.
Il tracciamento mostra una realtà nascosta: anche quando gettiamo i nostri abiti nei cassonetti nel modo corretto, il loro destino non è chiaro. Come dimostrato negli ultimi anni da diverse inchieste giornalistiche e indagini dell’Antimafia, si tratta infatti di una filiera opaca e spesso soggetta a infiltrazioni criminali.
I capi tracciati hanno fatto due volte e mezzo il giro della Terra
Grazie al supporto della startup Indaco2, abbiamo calcolato anche i chilometri percorsi e le emissioni di gas serra generati dal sistema di raccolta e smaltimento. I capi monitorati hanno percorso in media 3.888 chilometri, con il caso più eclatante che ha superato i 21.000 km. In totale, la distanza coperta dai 26 abiti tracciati è stata di oltre 100.000 km, pari a 2,5 volte la circonferenza della Terra. La lista completa delle destinazioni degli abiti che abbiamo tracciato e delle società che gestiscono i cassonetti scelti per l’indagine sono consultabili nel nostro report.
Viaggi così lunghi e dispendiosi in termini di emissioni sarebbero giustificati solo se alla fine di ogni percorso si arrivasse al riutilizzo del vestito usato.
Il sistema della moda usa e getta deve essere cambiato
Ricordiamo che, ogni anno, un cittadino europeo acquista in media 19 kg di vestiti e produce 16 kg di rifiuti tessili. In Italia, nonostante dal 2022 la raccolta differenziata del tessile usato sia obbligatoria, solo il 19% dei rifiuti tessili urbani viene effettivamente conferito nei cassonetti, meno di 3 kg pro capite.
Per evitare che i rifiuti tessili continuino ad intossicare i Paesi più svantaggiati e a generare emissioni, non solo la gestione dei rifiuti tessili deve essere ripensata, ma serve anche agire all’origine del problema, mettendo un freno alla produzione massiva di abiti a basso costo della fast fashion e dell’ultra fast fashion.
Il riciclo e le poche linee di abbigliamento eco o vegano, infatti, non sono sufficienti a contrastare la cultura dell’usa e getta, lo spreco, la pressione sugli ecosistemi naturali e la miriade di altri problemi creati dal fast fashion. L’intero sistema deve essere cambiato. E noi consumatori, a nostra volta, dobbiamo impegnarci a comprare meno e meglio.
Solo attraverso un impegno collettivo possiamo sperare di trasformare l’industria della moda in una forza positiva per il pianeta e per le persone. È il momento di agire e tu puoi farlo insieme a noi.
Photo: Kevin McElvaney / Greenpeace
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Rassegna del 14 Novembre, 2025 |
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