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linkiesta.it
Martedì 25 marzo la Commissione europea ha pubblicato una lista di quarantasette progetti strategici che dovranno rafforzare le capacità dell’Unione sulle cosiddette “materie prime critiche” per la transizione energetica e per la difesa.
La situazione è al momento di forte dipendenza dall’estero, che rappresenta un rischio per la sicurezza economica del blocco e la certezza degli approvvigionamenti. Come riconosciuto dal commissario europeo Stéphane Séjourné, responsabile della strategia industriale, «per molto tempo le materie prime sono state il punto cieco della nostra politica industriale».
I magneti in terre rare, utilizzati nei veicoli elettrici, nelle turbine eoliche e negli aerei da guerra sono forse la manifestazione più evidente e grave di questa noncuranza, visto che il novantotto per cento della domanda comunitaria è soddisfatta dalle importazioni dalla Cina. Ma Séjourné ha garantito che «il litio cinese non può diventare il gas russo di domani», cioè un’arma geopolitica nelle mani di un governo problematico, che può sfruttarla a proprio vantaggio. «Dobbiamo estrarre, trasformare e riciclare le materie prime in Europa».
A maggio dell’anno scorso, dopo un anno di gestazione, è entrato in vigore il Critical raw materials act, che fissa per il 2030 degli obiettivi minimi di estrazione (dieci per cento), di lavorazione (quaranta per cento) e di riciclo (quindici per cento) dei minerali critici consumati nell’Unione europea.
La lista presentata martedì contiene i progetti che dovranno permettere di raggiungere concretamente questi target. Riguardano quattordici materie prime, dall’alluminio per i pannelli solari al rame per i cavi elettrici; dal litio e il nichel per le batterie alle terre rare per i magneti. Sono localizzati in tredici stati dell’Unione: Belgio, Cechia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia.
Venticinque sono progetti estrattivi, come quello di LKAB sulle terre rare in Svezia; ventiquattro sono dedicati alla raffinazione, come quello a Sandouville, in Francia, sui materiali per le batterie; dieci, infine, si occupano di riciclo. Di questi ultimi, ben quattro si trovano in Italia: nel Lazio, in Toscana, in Veneto e in Sardegna.
A Ceccano, in provincia di Frosinone, si trova l’impianto INSPIREE di Itelyum per il recupero delle terre rare dai magneti contenuti nei motori elettrici e dagli hard disk. Attraverso il disassemblaggio dei magneti e l’applicazione di un processo idrometallurgico (i magneti vengono dissolti con degli acidi e le terre rare vengono separate), la struttura arriverà a recuperare fino a cinquecento tonnellate l’anno di ossalati di terre rare, più precisamente neodimio, praseodimio e disprosio.
A Rosignano, vicino Livorno, c’è l’Alpha Project di Solvay Chimica Italia sul riciclo dei metalli del gruppo del platino: platino, palladio, rodio, rutenio, iridio e osmio. Il platino viene utilizzato, tra gli altri scopi, negli elettrolizzatori per l’idrogeno. «Questo progetto creerà un impianto interno di recupero del palladio e di produzione di catalizzatori», ha spiegato l’amministratore delegato della società madre belga, Philippe Kehren.
A Cadoneghe, in Veneto, ha sede Circular Materials, il cui progetto RECOVER-IT consente di recuperare metalli critici (rame, nichel e platinoidi) dalle acque reflue industriali attraverso una tecnologia proprietaria. La startup ha fatto sapere di voler aprire altri cinque siti tra Francia, Germania, Spagna e Polonia, e un secondo in Italia nel 2026, puntando al recupero di tremila tonnellate di nichel e rame.
Dei quattro progetti italiani, il più grande sembra essere quello della compagnia mineraria anglo-svizzera Glencore in Sardegna, a Portovesme. Qui si trova un impianto, fermo, di zinco e piombo che verrà parzialmente convertito al recupero di litio e altri metalli dalle batterie. O quantomeno dovrebbe: non è di buon auspicio il fatto che nel novembre 2023 il gruppo Glencore avesse annunciato l’abbandono dei piani a causa delle incertezze autorizzative e delle tensioni con gli enti regionali.
A questo proposito, i quarantasette progetti europei beneficeranno di un percorso autorizzativo semplificato, ridotto a massimo ventisette mesi per le operazioni estrattive e a quindici mesi per le attività di raffinazione o di riciclo, in modo da aggirare lo scoglio del permitting, che può impiegare anche cinque-dieci anni.
Le iniziative richiederanno investimenti complessivi per 22,5 miliardi di euro e saranno supportate dalla Commissione, dagli stati membri e dagli istituti finanziari. Séjourné ha parlato di un «momento storico per la sovranità europea come potenza industriale», ricollegandosi al recente annuncio del Clean industrial deal (Cid).
Marco Dell’Aguzzo
Photo: AP Photo/LaPresse (ph. Virginia Mayo)
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