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ISSUE
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economiacircolare.com

Dalle creme “reef-friendly” alle collezioni “conscious”, il capitalismo tinge di verde i propri interessi. Ma dietro la retorica della sostenibilità si nasconde una strategia di potere: dire ecologia per continuare a inquinare. Ecco i motivi per cui il greenwashing resta ancora predominante.
Negli scaffali dei supermercati, nei feed social, perfino nei corridoi delle istituzioni internazionali, il verde, o se volete il green, è velocemente diventato uno dei colori del capitalismo. “Reef-friendly”, “carbon neutral”, “a impatto zero”: sono alcune delle etichette rassicuranti che promettono sostenibilità mentre coprono, con un linguaggio seducente, la continuità di un sistema economico predatorio. Il greenwashing è ormai parte della grammatica del capitalismo che investe in marketing ecologico: la capacità di dire (e vendere) sostenibilità senza mai praticarla.
Il caso più recente arriva dall’Australia, dove l’autorità garante per la concorrenza (ACCC) ha accusato colossi come Hawaiian Tropic e Banana Boat di ingannare i consumatori con solari “reef-friendly”. Secondo l’inchiesta di The Guardian, le creme solari dei due colossi della cosmesi contengono sostanze chimiche che danneggiano i coralli, nonostante la confezione evochi mari incontaminati e turismo responsabile. È un esempio perfetto di come l’industria (se appurato da un tribunale) riesca a trasformare la crisi ecologica in marketing: un packaging più verde che evidenzia l’attenzione (non certificata) agli ecosistemi.
Ma dietro la retorica della sostenibilità si nasconde un problema politico profondo. Come osserva un’analisi di The Conversation, il greenwashing è diventato un dispositivo strutturale delle campagne di comunicazione di molte aziende. Non nasce da un errore di qualche agente di marketing distratto o bizzarro. Le imprese non mentono (o presumibilmente non dicono tutta la verità) per errore: lo fanno per sopravvivere in un mercato che richiede di mostrarsi virtuosi senza cambiare davvero. Dichiararsi “carbon neutral” grazie a compensazioni inesistenti o a progetti di riforestazione mai verificati è oggi pratica comune, spesso tollerata o addirittura premiata da governi e istituzioni.
I rischi di un greenwashing strutturale
Le Nazioni Unite hanno definito il greenwashing una delle minacce più gravi alla transizione ecologica. Eppure la governance internazionale continua a muoversi con lentezza. Mentre si moltiplicano i summit e le strategie, le multinazionali del petrolio sponsorizzano conferenze sul clima, i brand della fast fashion lanciano collezioni “conscious” e le compagnie aeree si proclamano “sostenibili” per aver ridotto di qualche punto le emissioni per passeggero. È una gigantesca operazione di distrazione di massa che consente al capitalismo fossile di reinventarsi, assorbendo il linguaggio dei movimenti ecologisti per svuotarlo di significato politico.
Dietro le etichette “eco”, si muove un intero esercito di agenzie di comunicazione e consulenti ESG (Environmental, Social e Governance) che costruiscono narrazioni studiate per disinnescare il dibattito, il conflitto ed eventuali ripercussioni legali contro multinazionali che inquinano e/o fanno profitto su una comunicazione fuorviante o addirittura completamente falsa. Come spiega PlanA.Earth, il greenwashing è una strategia psicologica: neutralizza la rabbia e l’urgenza della crisi trasformandole in un’estetica del consumo consapevole. Compriamo la sensazione di essere parte di una soluzione prestando spesso attenzione a immagini evocative (la natura) o a non ben precisati studi che certificano la trasparenza aziendale e la qualità della filiera.
La moda è uno degli esempi più lampanti. Spesso abbiamo parlato di fast fashion e del contesto normativo (la direttiva 2005/29/CE) sulle pratiche commerciali sleali che si applica a qualsiasi omissione o atto direttamente collegato alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto. Secondo GreenQueen, marchi globali come H&M o Zara si appropriano del lessico della sostenibilità mentre continuano a produrre milioni di capi usa-e-getta. I rapporti ESG vengono riempiti di termini come “circolare” o “etico”, ma i dati sulla filiera restano opachi. E quando la Commissione Europea prova a imporre regole più stringenti — come nel caso della “Green Claims Directive” — le lobby industriali reagiscono con violenza, denunciando eccesso di burocrazia e attacco alla libertà d’impresa.
Se tutto è green allora niente è green
La partita è quindi non solo comunicativa, ma politica. Se green diventa sinonimo di marketing, la transizione ecologica rischia di trasformarsi in una nuova fase dell’accumulazione capitalista (se già non lo è) e la narrazione (e il contrasto) della crisi climatica si ritroverà ad affrontare una nuova sfida: il lavoro sul debunking – che mette in dubbio e confuta affermazioni false, esagerate, antiscientifiche – non si baserà più sulla discriminazione tra il vero e il falso, ma tra il vero e il verosimile. Come nota ZeroCarbon Analytics, il greenwashing mina la fiducia pubblica e ritarda l’azione climatica reale: ogni volta che un’azienda mente, rende più difficile credere a chi agisce davvero.
C’è però un segnale di inversione. Il moltiplicarsi di inchieste giornalistiche e cause legali — dall’azione dell’ACCC in Australia alle recenti denunce contro la pubblicità dei “bio-carburanti” — sta aprendo crepe nel sistema. Società civile, movimenti e autorità indipendenti non accettano più un claim pubblicitario o uno “studio certificato”. C’è bisogno di dati, analisi, verifiche e metodologie che seguono le indicazioni degli organismi di controllo internazionali. Anche il dibattito pubblico si fa più maturo, alimentato da analisi come “Reef Safe Sunscreen: Science-Based or Greenwashing?” e studi accademici come “No End in Sight? A Greenwash Review and Research Agenda”, che mostrano una consapevolezza in crescita e un allineamento sempre più stretto tra scienza e politica.
Alessandro Bernardini
Foto: economiacircolare.com
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Rassegna del 24 Ottobre, 2025 |
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